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Perché devono preoccuparci gli attacchi della destra di governo alla giudice Apostolico

Contro la decisione sull’illegittimità del decreto Piantedosi è arrivata la reazione di Meloni, Salvini e altri esponenti del governo. A loro andrebbe ricordato che il potere assoluto di un governo non è democrazia.
A cura di Roberta Covelli
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Il governo Meloni si sta confrontando in queste settimane con una "pressione migratoria senza precedenti" o, per essere un po’ più obiettivi, con il fallimento, politico e operativo, nella gestione degli sbarchi. L’ultima trovata dell’esecutivo, assai simbolica, è la possibilità per i richiedenti asilo di dare una garanzia finanziaria di quasi cinquemila euro per evitare il trattenimento. Sono bastati pochi giorni perché il Tribunale di Catania si trovasse di fronte all’applicazione del provvedimento governativo, verificando l’illegittimità della misura nel caso concreto. Ed ecco arrivare la reazione. Nelle ultime ore gli esponenti della destra al governo, tra cui la stessa presidente del Consiglio, si stanno esibendo in un flusso di dichiarazioni che non sono soltanto confusionarie e mistificatorie rispetto alle questioni trattate, ma hanno anche delle preoccupanti caratteristiche eversive. Vediamo perché.

Sbagliare le parole per falsificare la realtà

Iniziamo dalla confusione. Nel post in cui si dichiara "basita" per la decisione della giudice di Catania, Giorgia Meloni parla di un "immigrato illegale". Salvini si riferisce a un "giudice che non ha convalidato il fermo degli immigrati". Entrambi, con queste parole, falsificano la realtà.

Il decreto Cutro, così come il successivo decreto a firma Piantedosi, Nordio e Giorgetti che quantifica la cauzione, si riferisce a persone che richiedono la protezione internazionale. Se in precedenza il trattenimento era possibile nel caso in cui il richiedente avesse precedenti penali o costituisse un pericolo per la sicurezza o l’ordine pubblico, ora l’applicabilità di questo trattenimento si è allargata a dismisura e si può essere detenuti anche "al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato".

Quindi no, non si sta parlando di un tunisino immigrato illegalmente, ma di una persona proveniente dalla Tunisia che ha richiesto protezione internazionale, la cui domanda dovrà essere valutata nel caso concreto, senza che il richiedente sia sottoposto a misure detentive sproporzionate nell’attesa. E, no, il Tribunale di Catania non doveva convalidare un fermo, cioè valutare l’arresto di un soggetto gravemente indiziato di aver commesso determinati delitti, bensì il trattenimento di un richiedente protezione, misura imposta dal decreto Cutro.

Il vittimismo reazionario della comunicazione di governo

Ma la confusione di questa destra sul lessico delle migrazioni, e sui diritti sottostanti, è ormai tipica: risponde a una scelta di propaganda che, non potendo far leva sul razzismo esplicito, si rifà a un legalitarismo semplicistico, di difesa dei confini e rispetto delle regole, attizzando le paure e suggerendo la coincidenza tra diverso e criminale. Le reazioni dei membri del governo contro la giudice di Catania sono però perfino più preoccupanti, perché minano l’impianto stesso della divisione dei poteri, e, per farlo, usano il vittimismo tipico della comunicazione reazionaria.

Se osserviamo il post di Giorgia Meloni, e lo accostiamo al resto delle dichiarazioni contro la pronuncia del tribunale di Catania, notiamo tanto l’approccio reazionario, quanto la narrazione vittimista che spesso lo accompagna. Da un lato, da Salvini come da Cirielli, arriva la promessa, che suona come una minaccia, di una riforma della giustizia, cavallo di battaglia della destra ormai da decenni. Dall’altro, si può notare come la presidente del Consiglio chiuda il suo post con un "senza paura", come se la decisione del tribunale catanese fosse un attentato alla politica del suo governo, invece dell’applicazione argomentata della legge. Ed è proprio sul rapporto tra governo, legge e giudici che il vittimismo di questa destra diventa eversivo.

"Soltanto alla legge": tra interpretazione e gerarchia delle fonti

La giudice di Catania è soggetta soltanto alla legge, dice la Costituzione.

"La legge" è l’ordinamento, cioè l’insieme delle norme, dei provvedimenti, dei regolamenti. Ma non tutte queste norme hanno lo stesso valore: l’ordinanza di un sindaco non vale quanto una legge votata dal Parlamento, così come un decreto interministeriale non ha lo stesso valore, né lo stesso potere, delle norme costituzionali o delle regole dell’Unione europea. I giudici allora non possono limitarsi ad applicare gli ordini, quando questi sono in contrasto con un diritto di fonte superiore: hanno anzi il dovere di applicare la legge secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata.

Questo significa che non importa che un provvedimento sia stato proposto da un premio Nobel o da Donzelli: se non è coerente con i princìpi delle norme superiori, va disapplicato nel concreto (e, in alcuni casi, e a determinate condizioni, rinviato alla Corte costituzionale).

Quando questo avviene, non è un dispetto al governo, né la politicizzazione della magistratura: è "la legge".

Il potere assoluto di un governo non è democrazia

Nelle parole di Giorgia Meloni, come nelle dichiarazioni di altri esponenti della destra al governo, c’è invece un pericoloso sottinteso, che suggerisce una gerarchia tra istituzioni, invece della loro cooperativa divisione. La leader di Fratelli d’Italia parla infatti di una sentenza che si scaglia contro i provvedimenti di un "governo democraticamente eletto". Al di là dell’ennesima confusione comunicativamente calcolata (no, il governo italiano non è eletto, siamo ancora una repubblica parlamentare), è il caso di ricordare non basta il voto popolare per garantire la legittimità, e la giustizia, di una norma.

L’Italia è una repubblica democratica in cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Tra i limiti c’è il rispetto dei diritti umani, sanciti tanto dalla Costituzione quanto dalle carte internazionali e sovranazionali a cui, come Stato, abbiamo aderito. Tra le forme c’è la divisione dei poteri, quella secondo cui a legiferare è il Parlamento (non il governo, se non in casi di necessità e urgenza), il governo ha poteri di indirizzo politico e di amministrazione e la magistratura applica le leggi, indipendentemente dai desideri politici del governo in carica.

Ci troviamo invece oggi di fronte a un governo che ha emanato un (altro) provvedimento illegittimo e che, invece di riflettere sulla strategia politica adottata (o sulla scarsa conoscenza del diritto di chi progetta i provvedimenti del governo), pretende di imporre la propria legge, che non tollera limiti né bilanciamenti, e che calpesta le basi, formali e sostanziali, della nostra democrazia.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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