È diventato un vero e proprio caso politico il prolungato silenzio del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, soprattutto perché ha coperto un arco di tempo fondamentale per la campagna elettorale, tanto delle Regionali che del referendum sulla riforma della Costituzione. Un periodo di assenza dalla scena pubblica che non ha una spiegazione ufficiale, ma che fa tanto più rumore perché cominciato dopo il “no, grazie” di PD e M5s all’invito di allearsi anche in Puglia e nelle Marche per provare a contendere la vittoria al centrodestra, evitando così di rafforzare l’opposizione e in particolare Matteo Salvini. Da allora, Conte non si è fatto né vedere né sentire, continuando a lavorare al Recovery Plan nazionale, ma evitando accuratamente di associare la sua figura alle competizioni territoriali e men che meno al referendum sul taglio dei parlamentari (aveva annunciato il sì settimane prima).
Intendiamoci, non c’è mai stata la possibilità che questo del 20 e 21 settembre potesse essere considerato un test nazionale sull’operato del suo governo durante la pandemia. Ma per le singole forze che compongono la maggioranza questo è comunque un appuntamento cruciale, diremmo addirittura fondamentale. Il punto è che, lasciando da parte Campania e Veneto (di fatto assegnate), le forze della maggioranza hanno praticamente tutto da perdere e pochissimo da guadagnare: il M5s non ha chance di essere competitivo da solo, il PD si è ridotto a considerare un successo l’eventuale tenuta in Puglia e Toscana, Italia Viva non si aspetta granché dalla consultazione, l'area di sinistra è essenzialmente subalterna ovunque. Il senso della proposta di Conte, in effetti, era tutto qui: fare fonte comune per non rafforzare l’opposizione, prendendo atto della necessità di mettersi d’accordo su candidati comuni, legittimando politicamente il patto di governo e preparando il terreno per i prossimi mesi. Peraltro, in un contesto di graduale ma costante avvicinamento strutturale di PD e M5s, testimoniato dalle parole di Di Maio e Zingaretti e dal rafforzamento dell’ala governista trasversale ai gruppi parlamentari. Non è un caso che in queste ore siano in molti all’interno dei due schieramenti a pensare che “si sarebbe potuto fare di più” per non disperdere i consensi nelle Regioni in bilico (Puglia e, in parte, Marche) e in Toscana, dove un’eventuale sorpresa leghista potrebbe avere ripercussioni clamorose sulla stessa leadership democratica.
Sia come sia, ancora una volta le forze di governo si presentano su fronti opposti nella stragrande maggioranza di Regioni e Comuni in cui si vota, senza avere neanche una posizione unitaria sul referendum. Dunque, nessuno può parlare a nome e per conto del Governo, né appropriarsi dei risultati, né rivendicare un canale privilegiato di interlocuzione (come spesso si fa durante la campagna elettorale). Il silenzio di Conte, la sua distanza da candidati (scontata) e temi (un po' meno), risponde proprio a questa esigenza strategica: tenere fuori il patto di governo da "tutto il resto", creando una sorta di cuscinetto di protezione in caso di tracollo elettorale delle forze di maggioranza. Il Governo è una cosa, le vostre beghe interne un'altra, sembra dire Conte, consapevole che nessuno sarebbe così folle da aprire una crisi in piena recrudescenza dei contagi e con la cruciale gestione delle risorse del Recovery Fund. Un giochetto complicato, che potrebbe non funzionare se le ripercussioni del voto del 20 e 21 settembre dovessero scuotere dalle fondamenta gli azionisti della maggioranza. Nel caso, sarà molto difficile continuare a rimanere in silenzio.