Sorridi, domani andrà peggio. Così dice la più celebre delle leggi di Murphy, testo sacro del pessimismo cosmico. Così rischia di essere il prossimo futuro del Partito Democratico. Perché il risveglio dalla sconfitta più cocente che la storia della sinistra ricordi – minimo storico dei voti, la più grande maggioranza di sempre che una coalizione di destra abbia mai ottenuto, una leader post-fascista a Palazzo Chigi – rischia di essere ancora più duro della sconfitta stessa. Un risveglio, che a causa di tre fattori concomitanti rischia davvero di mettere a rischio la sopravvivenza stessa del partito che era nato per occupare ogni spazio possibile del centrosinistra.
Premessa doverosa: non aggrappatevi a quel 19% e a quei 5 milioni scarsi di voti che hanno fatto del Pd la seconda forza politica lo scorso 25 settembre. Perché no, non sono le basi da cui ripartire, ma l’attestazione del fallimento di un progetto politico che non ha senso se non è egemone, almeno nel suo campo. E che non ha nulla da contrapporre a partiti e movimenti, alla sua destra e alla sua sinistra, che magari hanno meno voti, ma sicuramente un’identità più forte che possono spendere molto meglio, ora che sono all’opposizione.
Uno su tutti, il Movimento Cinque Stelle. Che ha perso 6 milioni di voti dal 2018, ma che è uscito più vivo che mai dalle urne, recuperando un sacco di consensi nel nome di quel reddito di cittadinanza che Giorgia Meloni ha promesso di eliminare. Dovesse provarci davvero – nelle condizioni in cui siamo, qualche dubbio ce l’abbiamo – per i Cinque Stelle sarebbe manna dal cielo. Perché nel nome del reddito potrebbero coagulare attorno a loro tutto il dissenso nei confronti del governo di destra, saldare un’alleanza coi sindacati e con le forze sociali della sinistra e relegare il Pd a un ruolo ancillare, tanto più se si pensa che non tutti i dem s’immolerebbero volentieri contro la misura simbolo del governo gialloverde.
Lo stesso, peraltro, potrebbe accadere se il governo Meloni prossimo venturo decidesse di puntare forte sul nucleare come fonte energetica per superare la dipendenza dalle fonti fossili. Anche in questo caso, Il Movimento Cinque Stelle, per lo stesso motivo, avrebbe molta più forza e credibilità per porsi come forza di opposizione senza se e senza ma a questo tipo di scelta, imponendosi come la principale forza ambientalista dell’emiciclo.
Entrambi le battaglie, peraltro, rischiano di giustapporsi con la battaglia congressuale all’interno del Partito Democratico, in cui con ogni probabilità si affronteranno un candidato più riformista, più incline al dialogo col Terzo Polo che è contro il reddito di cittadinanza e favorevole all’opzione nucleare, e un candidato più progressista, che di nucleare e abbandono del reddito non ne vorrà nemmeno sentir parlare. Nel breve, questa dialettica rischia di indebolire ulteriormente l’identità del Partito Democratico. Nel medio periodo, chiunque dovesse prevalere, rischia di provocare ulteriori fuoriuscite, se non vere e proprie scissioni. Nel caso della vittoria del candidato più a sinistra, il richiamo del Terzo Polo diventerebbe irresistibile o quasi per la componente più riformista del Partito. Nel caso di vittoria di un candidato riformista, allo stesso modo, una scissione a sinistra sarebbe quasi inevitabile.
Anche i tempi congiurano contro il Pd: se c’è un momento perfetto per iniziare percorsi nuovi è proprio all’inizio di una legislatura d’opposizione, ancora di più se si ha la sensazione che la barca stia affondando e che ogni scialuppa potrebbe essere l’ultima.
Non sappiamo cosa ci sia, al termine della notte. Sicuramente, se ancora ci sarà un Partito Democratico, sarà una forza molto più piccola di quella che conosciamo oggi, con un’identità – si spera – molto più forte di quella che abbiamo conosciuto in questi anni. Di sicuro, o quasi, c’è che il progetto della grande forza a vocazione maggioritaria ha cessato di esistere domenica 25 settembre. Farsene una ragione e prepararsi al peggio, almeno di questo, aiuterà a immaginare meglio il futuro, qualunque esso sia.