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Perché aumentare i posti in carcere non serve a risolvere il sovraffollamento, come dice Meloni

Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha risposto alle domande di Fanpage.it sul sovraffollamento delle carceri in Italia e sulle soluzioni proposte dal governo Meloni: soprattutto, ampliare i carceri esistenti. Sono “cose che abbiamo sentito moltissime volte in passato”, sbagliate sia “in astratto” che nella pratica, e che anche se venissero attuate non risolveranno il problema.
Intervista a Patrizio Gonnella
Giurista e presidente di Antigone
A cura di Luca Pons
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Nelle carceri italiane sono detenute 60.367 persone, mentre i posti disponibili sulla carta sarebbero al massimo 51.347, secondo dati del ministero della Giustizia. Ci sono circa 9mila persone di troppo, cosa che porta a un forte peggioramento delle condizioni di vita per chi ci vive. Dall'inizio dell'anno sono già 15 i suicidi avvenuti in carcere, quasi uno ogni due giorni. La presidente del Consiglio Meloni ha detto che la soluzione per il sovraffollamento è "aumentare la capienza delle carceri". Una proposta che secondo Patrizio Gonnella, giurista e presidente dell'associazione per i diritti delle persone detenute Antigone, è inutile e superata, e riflette una "cultura della repressione di massa" che il governo di destra esprime in vari modi. A Fanpage.it Gonnella ha spiegato perché la linea dell'esecutivo non può funzionare.

Il sovraffollamento delle carceri italiane influisce sulle condizioni di chi è detenuto?

Ovviamente c'è un rapporto diretto tra l'affollamento e la qualità della vita. In termini di spazi ridotti e di opportunità che vanno divise per le persone presenti, ad esempio. Ma anche in termini di rapporti professionali, perché non è che se aumentano i detenuti si aumenta il numero di educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori, direttori o poliziotti. In più, in questa fase storica sembra che la politica voglia fare un passo indietro anche sull'organizzazione della vita interna: sempre più chiusura degli spazi, che produce malessere e assenza di speranza.

Nei primi 35 giorni dell'anno ci sono stati 15 suicidi in carcere. Anche su questo hanno un effetto le condizioni di vita interne?

Se dall'interno del carcere si percepisce una condizione degradata di vita da un lato, e dall'altro l'assenza di un progetto – tanto che sembra davvero prendere forma quella brutta espressione, "buttare la chiave" – è chiaro che questo contribuisce all'aumento dei suicidi. È un dato drammatico che dovrebbe interrogare l'amministrazione penitenziaria, e immagino lo farà. Ovviamente ogni suicidio è una storia a sé, ma ci sono degli elementi generali comuni. È come se la disperazione delle persone non fosse intercettata, come se le persone fossero nuovamente dei numeri.

Patrizio Gonnella, presidente di Antigone
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone

Ha scritto qualche mese fa sul manifesto che con questo governo "cella e carcere vengono fatti coincidere pericolosamente", ed è "un regalo ai sindacati autonomi di polizia penitenziaria". Ci può spiegare perché? 

La pena prevista è il carcere, che non significa stare chiusi in cella 24 ore su 24, ma fare vita all'interno di quello spazio chiuso. Stare fuori dalla cella il più possibile. Queste sono le indicazioni che arrivano dagli organismi internazionali. Usare la cella semplicemente come luogo di pernottamento, e poi avere gli spazi comuni: scuola, lavoro, socialità. Rendere il carcere uno spazio di vita vissuta, cosa che ha anche una straordinaria capacità di prevenire la violenza, sia verso gli altri che verso se stessi. C'è invece una parte del sindacalismo penitenziario, quello autonomo, che interpreta il proprio ruolo in modo molto poco moderno. Lo interpreta come i garanti della cella chiusa.

Ed è una parte che ha trovato l'appoggio del governo?

Ha trovato molto appoggio in campagna elettorale, e quindi la linea del governo è un po' anche l'esito di quelle promesse, secondo me. È una visione miope. Anche mettendosi nei panni dei poliziotti. Se io fossi un poliziotto preferirei un carcere dove le persone sono più contente, fanno sport e attività, stanno fra di loro, ovviamente con tutte le cautele per il rispetto della non violenza e della legalità. Così si ridurrebbe la conflittualità. E invece oggi si va nella direzione opposta: addirittura si arriva a pensare di mettere un nuovo reato, quello di rivolta penitenziaria. E uno dei casi in cui si configurerebbe sarebbe la resistenza passiva. Quindi bisogna solo obbedire.

Cosa c'è alla base del sovraffollamento?

I fattori sono molteplici, ma uno riguarda la concezione del diritto penale. La nostra idea è che il diritto penale intervenga solo laddove necessario, non dappertutto. Invece nell'ultimo anno ci sono stati circa quindici interventi legislativi diretti o a prevedere nuovi reati, o ad aumentare le pene per reati già previsti. In più, si limita l'accesso ai benefici penitenziari. È una cultura della repressione di massa. Così stiamo tornando ai numeri del 2013, anno in cui l'Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani perché quel tasso di affollamento non garantiva i diritti.

È questo il "populismo penale" di cui le opposizioni accusano il governo, e che anche il ministro della Giustizia Nordio quando era magistrato? 

Sì, il ministro Nordio non ha espresso una sola opinione che sia coerente con i suoi principi di liberalismo. Per ora la direzione del governo è tutta un'altra: repressione, proibizione, chiusura, disciplina. Lo si vede nel carcere, come contro chi protesta (penso agli agricoltori, trattati molto meglio di studenti e ambientalisti).

Sul sovraffollamento Meloni ha detto che il problema "non si risolve togliendo reati, ma aumentando la capienza delle carceri". 

Sono cose che abbiamo sentito moltissime volte in passato…

Sono sbagliate?

Da un lato bisogna parlare in astratto, sul piano filosofico: non è che si può punire tutto ciò che non si piace. A volte si punisce penalmente, altre volte si sanziona in altro modo, altre volte ancora ce lo teniamo. Va punito ciò che danneggia i beni fondamentali. Penso alla questione delle droghe: c'è tanta ideologia proibizionista, ma bisognerebbe cercare altri strumenti.

E nel concreto?

Di costruire nuove carceri o aumentarne la capienza si parla da anni. Lo stesso ministro Nordio fu presidente della commissione di riforma del codice penale [nel 2001-2005, ndr], abbiamo avuto piani di edilizia penitenziaria da vent'anni a questa parte. Si è riusciti a costruire poco, perché farlo costa e costa anche il personale per mantenerlo. In più, ci sono state molte storie di corruzione nel nostro sistema. E comunque, ribadisco, costruirle non è una soluzione a lungo termine.

Sul caso di Ilaria Salis, Giorgia Meloni ha detto che "accade in diversi Stati, anche occidentali, che i detenuti vengano portati così in tribunale". È vero?

Prima di tutto, un principio elementare: non è che se lo fanno gli altri Paesi, allora va bene. Anzi, dovrebbe interrogarci sulla necessità di costruire standard comuni nell'area dell'Unione europea. Tutti gli Stati devono elevare gli standard. E soprattutto, nessuno deve rivendicare la disumanità.

In che senso?

Quello che abbiamo visto in Ungheria non solo un fatto in sé, che pure è gravissimo. Il problema è che è un fatto ostentato, su cui non ci si vergogna. A volte le cose si fanno, però poi in pubblico si dice "ma no, era un caso eccezionale, non è la nostra cultura". Qui invece è stato ostentato. Questa ostentazione spero che non venga mai attuata nel nostro Paese.

Invece il presidente del Senato La Russa ha dichiarato: "In Italia ho visto un sistema non molto dissimile, almeno per gli uomini, un po' meno per le donne, cioè di guinzaglio e di manette". Ha ragione?

Capita che ci siano persone ammanettate durante la traduzione, ma fortunatamente non si vedono da anni persone ammanettate mani e piedi davanti a un giudice. Anche nel nostro Paese ci sono violazioni dei diritti umani, come ho già spiegato, ma in questo specifico ambito non direi. Al limite durante l'udienza la persona può stare in una gabbia di vetro, ma è libera da strumenti di coercizione.

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