Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa due giorni fa. È stata trovata morta nella sua casa a Frassilongo, in provincia di Trento, dove si era trasferita dall'Etiopia. Nelle ultime 48 ore i media hanno dedicato moltissima attenzione all'omicidio e una parola ricorrente che è stata usata, che però non si capisce bene cosa c'entri con la violenza che ha messo fine alla vita di Agitu Ideo Gudeta, è stata "integrazione". Ma perché? Se la sua storia fosse stata diversa, la sua vita avrebbe forse avuto meno valore? I lettori avrebbero forse dovuto dispiacersi meno per la sua morte?
Il racconto della morte di Agitu Ideo Gudeta trasuda razzismo
Le parole usate per raccontare l'omicidio di Agitu Ideo Gudeta trasudano razzismo. E ci mostrano come i media italiani siano lo specchio di una cultura intrinsecamente xenofoba, incapace di raccontare storie come quella di Agitu Ideo Gudeta, della sua vita tanto quanto della sua morte, se non in maniera fuorviante. Sottolineando che in Italia una donna come lei sarà sempre etichettata come una migrante. Perché in fondo, definirla un "modello di integrazione", è solo un altro modo per ricordare che lei non fosse italiana. Ma che, nonostante questo, potesse essere un esempio. I giornali, in queste ore, hanno semplicemente alimentato la retorica del "deserving migrant", evidenziando come siamo ancora anni luce dall'essere veramente un Paese accogliente, solidale e libero dal razzismo.
La sua non è solo una storia di migrazione
Agitu Ideo Gudeta era già stata in Italia prima di stabilirsi a Frassilongo e fondare la sua attività. Aveva infatti studiato alla facoltà di Sociologia a Trento, per poi decidere di tornare nella sua città natale, Addis Abeba, dove aveva denunciato le politiche di land grabbing, cioè l'appropriazione di terre da parte di multinazionali o governi stranieri senza il consenso delle comunità che le abitano. Nel suo Paese aveva ricevuto minacce ed era stata costretta a fuggire. Era quindi tornata in Italia, in Trentino, dove aveva iniziato la sua attività come allevatrice di capre di razza mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, recuperando allo stesso tempo terreni abbandonati. Aveva anche aperto una bottega nel centro di Trento, la Capra Felice. Anche qui, tuttavia, aveva ricevuto minacce per il colore della sua pelle. Che però non sono state riconosciute come tali, perché in Italia è ancora facile fare finta che il razzismo non esista. Due anni fa, infatti, un vicino di casa è stato condannato a 9 mesi per lesioni dopo averla aggredita, ma sono cadute le accuse per stalking e l'aggravante dell'odio razziale, avanzate dal pm.
Basta con la retorica del deserving migrant
Oggi però non sentiamo parlare di Agitu Ideo Gudeta come imprenditrice, come simbolo di emancipazione per le donne, come allevatrice ambientalista. Tutto viene in secondo piano rispetto al suo essere un'immigrata. Raccontare la sua vita sotto la definizione di "esempio di integrazione" è l'ennesima affermazione del razzismo in questo Paese. Se fosse stata "solamente" una donna arrivata dall'Africa, magari su un barcone, in fuga da violenza e discriminazione, la sua morte sarebbe stata meno grave? Perché è questo che suggerisce una retorica che ancora una volta separa tra i migranti buoni, ben integrati e protagonisti di storie eroiche, e quelli cattivi. Quelli che uccidono e stuprano, proprio come il suo presunto assassino.
Parlare di Agitu Ideo Gudeta come dell'eccezione alla regola non le fa onore. Svilisce anzi la sua memoria. Perché il fatto che fosse "perfettamente integrata" non c'entra nulla con il suo valore. Che è dato da ben altro, come ci racconta la sua storia. Ma una persona come Agitu Ideo Gudeta in Italia resterà sempre una migrante. Certo, ben integrata, ma una migrante.