video suggerito
video suggerito

Per la parità di genere in Italia dobbiamo aspettare 29 anni: cosa dice il rapporto sullo stato dei diritti

Nonostante alcune riforme e l’aumento dell’occupazione femminile, la parità di genere in Italia è ancora lontana dalla piena realizzazione. La maternità, il divario salariale e la violenza di genere rimangono ostacoli significativi, mentre le politiche di supporto risultano frammentate e poco efficaci. A dirlo il nuovo Rapporto di A Buon Diritto.
A cura di Francesca Moriero
14 CONDIVISIONI
Immagine

Nonostante i numerosi discorsi e le dichiarazioni di impegno da parte del governo e delle forze politiche di questi anni, la parità di genere in Italia non sembra aver compiuto progressi significativi: le sfide culturali, politiche e sociali che ostacolano l’autodeterminazione femminile e la parità di opportunità, restano profonde.

Nonostante alcuni passi in avanti siano stati fatti come l’introduzione di politiche e normative volte a ridurre il divario occupazionale, le difficoltà sono ancora evidenti. Al ritmo attuale, la parità di occupazione tra uomini e donne nel Paese sarà raggiunta solo tra 29 anni. Questo è quanto emerge dal recente Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, redatto dall'associazione A Buon Diritto

Il quadro occupazionale in Italia

Sebbene, negli ultimi dieci anni, l’occupazione femminile sia aumentata più rapidamente rispetto a quella maschile (+9,7% contro l’8,8%), il divario di genere è ancora evidente: se questo trend dovesse continuare, ci vorranno circa 29 anni per raggiungere una parità effettiva.

Come mostra il nuovo Rapporto di A Buon Diritto, negli ultimi dieci anni, sono stati fatti notevoli progressi per l’ingresso nel mercato del lavoro alle donne italiane , anche se la strada per una piena parità occupazionale sembra essere ancora molto lunga: la partecipazione femminile al lavoro è aumentata, raggiungendo risultati positivi tra il 2013 e il 2023, ma nonostante questi passi avanti, l’Italia resta infatti molto indietro rispetto alla media europea.

La pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto particolarmente grave sull’occupazione femminile, invertendo in parte i guadagni ottenuti negli anni precedenti: nel periodo tra il 2019 e il 2020, ad esempio, come si legge nel report, il numero di donne occupate è diminuito del 2,5%, un calo più marcato rispetto a quello degli uomini, che è invece stato dell’1,5%.

Settori come la ristorazione, i servizi commerciali e l’istruzione hanno registrato una forte perdita di posti di lavoro femminili, dovuta anche alla maggiore incidenza delle donne in questi ambiti. Alla fine del 2021, però, è arrivata una novità importante: la Legge 162 ha introdotto modifiche significative al Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, ampliando gli obblighi di trasparenza delle aziende sui temi della parità di genere.

Con l’introduzione della certificazione di parità di genere, da quel momento le imprese sono state chiamate a dimostrare il loro impegno concreto per ridurre il divario di genere, dall’adozione di politiche di parità salariale alla tutela della maternità.

Sebbene l'iniziativa sia stata fin da subito accolta positivamente, il tema è tuttavia molto spesso sfruttato dalle aziende per il cosiddetto "gender washing", cioè per migliorare l’immagine dell’impresa senza compiere reali passi verso l’uguaglianza di genere. Nonostante questi timori, come si legge nel Rapporto, il numero di aziende che hanno ottenuto la certificazione ha superato le 1800, ben oltre le 800 previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per il 2026.

Nonostante questi miglioramenti, la situazione rimane comunque preoccupante: il divario salariale tra uomini e donne continua a essere elevato, con le donne che guadagnano circa 7.922 euro in meno all’anno rispetto ai colleghi maschi.

L’occupazione femminile in Italia, è ancora ben ben lontana dall’essere paritaria, non solo rispetto agli altri paesi europei, ma anche all’interno dello stesso territorio nazionale, dove persistono ampie disparità tra Nord e Sud e dove molte donne continuano ad essere concentrate in lavori part-time o con contratti precari.

Le donne e la maternità

Le donne occupate oggi in Italia sono circa 9,5 milioni, contro i 13 milioni degli uomini, e una donna su cinque lascia ancora oggi il mercato del lavoro a causa della maternità, che continua a essere un ostacolo significativo. Si, perché ancora oggi, nel 2025, tra uomo e donna, è la donna che tende poi ad abbandonare il proprio lavoro per restare a casa ad occuparsi dei propri figli. E la maternità è ancora associata a una perdita salariale notevole, a difficoltà nel reinserimento nel mercato del lavoro e a minori opportunità poi di carriera.

"L’ultima relazione annuale di Bankitalia ci mostra che alla maternità è associata una forte perdita salariale per le donne, una grande difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro e minori possibilità di fare carriera", si legge nel Rapporto che sottolinea anche che "sia il Global Gender Gap Reportdel 2023 del World Economic Forum che l’ultimo Indice europeo di parità, rilasciato ad ottobre 2023 dall'Agenzia europea per l’uguaglianza di genere (EIGE), riportano che, mentre l’Europa si attesta il miglior punteggio tra le regioni del mondo per il suo livello di parità di genere, registrando il miglior dato di sempre, l'Italia si mantiene al di sotto della media europea e sotto tutti i paesi europei del G7 e del G20. In particolare, nel rapporto EIGE, l'Italia si conferma, ininterrottamente dal 2010, all'ultimo posto nel settore occupazionale a livello europeo, per il tasso di partecipazione e segregazione del mercato del lavoro e per la qualità del lavoro delle donne".

Nonostante gli sforzi legislativi, come il recente esonero contributivo per le madri con tre o più figli introdotto dalla Legge di Bilancio 2024, il Rapporto dimostra che le misure di supporto sono ancora frammentate e spesso poco efficaci: "Da tempo gli studi raccomandano la rinuncia ai meccanismi dei bonus, in quanto frammentati e occasionali, e quindi spesso inefficaci, inefficaci al fine di risolvere il problema legato al reinserimento della madre nel mondo del lavoro, emergendo inoltre un profilo di discriminazione e prevedendo dei requisiti minimi per il conseguimento difficili da presentare".

La carenza di politiche di conciliazione tra vita lavorativa e famiglia, così come la scarsa collaborazione maschile nelle faccende domestiche e familiari, contribuiscono poi ad aumentare ancor più il peso sulle donne: "Ancora una volta, in una misura di supporto a fronte della nascita di un* figli*, non viene menzionato il ruolo dei padri, che dovrebbero contribuire in maniera equa alla cura della famiglia", si legge nel Rapporto che cita anche come in Italia la maternità continua a presentare un costo altissimo per le donne, non solo in termini di servizi ma anche di collaborazione e di strumento in grado di permettere loro di conciliare vita lavorativa e carichi familiari. Non solo la carenza di collaborazione maschile, ma di servizi pubblici, di asili nidi, e di politiche pubbliche a sostegno delle scelte riproduttive "trasforma la nascita di un* figli* in un carico di lavoro di cura sproporzionato, nel rischio concreto di perdere il lavoro, e, molto spesso, nella rinuncia non solo alla propria progettualità individuale".

Il cammino verso la parità di genere in Italia, quindi, richiede non solo l’introduzione di nuove leggi, ma anche un cambiamento profondo nelle politiche pubbliche, nelle pratiche aziendali e nella cultura sociale. La parità salariale, la protezione della maternità, la conciliazione tra lavoro e vita privata sono temi centrali, ma la vera sfida, come sottolinea il Rapporto, è rendere concreti questi principi in ogni ambito della vita quotidiana e professionale delle donne.

L'accesso all'aborto libero: In Italia troppi obiettori di coscienza

Il dibattito sui diritti riproduttivi delle donne e sulla loro salute ha attraversato un cammino complesso e articolato negli ultimi dieci anni, segnato da progressi ma anche da ostacoli significativi: nel 2013, il Rapporto evidenziava già la problematica del diritto all’aborto libero e assistito, denunciando l’alto numero di obiettori di coscienza tra i professionisti sanitari e l’organizzazione inefficace dei servizi di interruzione volontaria di gravidanza (IVG).

Tale situazione aveva portato già allora il Comitato Europeo dei Diritti Sociali a condannare l’Italia per violazione dell’articolo 11 della Carta Sociale Europea, che tutela proprio il diritto alla salute. A dieci anni di distanza, la situazione è ancora problematica, con un numero elevato di obiettori in molte regioni italiane, in particolare in Abruzzo, Sicilia, Campania e Puglia, che rende difficoltoso per molte donne accedere all’aborto.

Un’importante novità di questi ultimi anni, tuttavia, è stata l’adozione, nel 2020, delle "Linee di indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine", che hanno esteso la possibilità di praticare l’aborto farmacologico fino alla nona settimana di gestazione, anche in strutture ambulatoriali pubbliche. Queste linee guida, però, pur rappresentando un passo avanti, non hanno forza di legge e sono state quindi applicate con molta reticenza da parte dei servizi sanitari. Nel frattempo, i dati sul ricorso all’aborto continuano a mostrare una diminuzione, con una riduzione significativa degli aborti negli ultimi decenni.

Come si legge nel Rapporto 2023-2024, le politiche a favore della contraccezione di emergenza hanno ridotto l’incidenza degli aborti clandestini, ma il divario nell’accesso ai contraccettivi e la mancanza di un sistema gratuito e accessibile per la contraccezione continuano a rendere l’Italia tra gli ultimi paesi in Europa per quanto riguarda la parità di accesso a questi servizi. Parallelamente, la discussione su una possibile riduzione dei costi per la contraccezione, come la proposta di rendere gratuita la pillola anticoncezionale, si è intensificata, ma anche in questo caso le soluzioni concrete rimangono limitate. I consultori, che dovrebbero svolgere un ruolo cruciale nel garantire alle donne l’accesso ai servizi sanitari e contraccettivi, sono assolutamente carenti, se non praticamente inesistenti, sul territorio, con un numero insufficiente rispetto alle esigenze delle donne. E questo, come dichiara A Buon Diritto, è il risultato di una crescente privatizzazione dei servizi sanitari e di un disinvestimento nella sanità pubblica.

Nel contesto politico e sociale, le politiche recenti, come l’introduzione della "tampon tax" e la riduzione dei fondi per la sanità pubblica, mostrano la persistente difficoltà di garantire pienamente i diritti delle donne. Allo stesso modo, "le proposte legislative che minano l’autodeterminazione delle donne, come l’introduzione del riconoscimento giuridico del feto e la proposta di obbligare le donne a vedere il feto prima dell’aborto, dimostrano una preoccupante tendenza a ridurre i diritti riproduttivi e la libertà di scelta".

La violenza di genere

Il Rapporto di A Buon Diritto evidenzia anche la persistente violenza di genere, un altro aspetto critico per la piena realizzazione della parità di diritti tra uomini e donne: nel 2023 sono state registrate 104 vittime di femminicidio, con un significativo numero di casi perpetrati da uomini di nazionalità italiana e spesso legati alla vittima da un rapporto di intimità.

Inoltre, il numero di richieste di aiuto tramite il numero di pubblica utilità contro la violenza (1522) ha registrato un aumento del 143% rispetto al 2019, confermando la crescente consapevolezza e la necessità di sostegno. Anche i reati legati alla violenza sessuale e ai maltrattamenti familiari sono in costante crescita, con un incremento significativo negli ultimi dieci anni.

Le donne migranti: sempre più discriminazioni

Non meno rilevante è la questione delle donne migranti, che affrontano discriminazioni sia sul piano sociale che sanitario. Molte di loro sono soggette a forme di violenza e sfruttamento, in particolare nel contesto della tratta di esseri umani, con un numero crescente di vittime. Nonostante i passi avanti sul piano normativo, le donne migranti continuano a incontrare gravi difficoltà nell’accesso alla giustizia e ai servizi di protezione, rendendo più complicato il riconoscimento dei loro diritti e l’integrazione nel tessuto sociale.

Gli strumenti normativi non bastano

Nel corso del decennio 2013-2023, sono stati introdotti diversi strumenti legislativi, tra cui la Legge sul femminicidio e la Legge Codice Rosso, che hanno inasprito le pene per i reati di violenza di genere. Tuttavia, nonostante l’impegno normativo, la reale efficacia delle misure adottate dipende dalla loro applicazione concreta. Come sottolineato nel Rapporto, la violenza di genere non può essere affrontata solo con un approccio repressivo, ma richiede un cambiamento culturale molto profondo e una maggiore disponibilità di risorse e sostegno per le vittime.

Anche la recente istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e la Legge 168/2023, che prevede un inasprimento delle pene e maggiori tutele, rappresentano passi in avanti, ma la loro realizzazione pratica "rimane comunque ancora una sfida", si legge nel Rapporto. La piena efficacia delle politiche di contrasto alla violenza, come viene sottolineato da A Buon Diritto dipenderà "dalla loro sostenibilità e dalla capacità di affrontare il problema in modo integrato e multidimensionale".

14 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views