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Opinioni

Per i giudici è una “sex worker”, ma subiva violenze e minacce dal suo sfruttatore

Un altro caso di colpevolizzazione secondaria dopo un’estate di sentenze che mettono sempre in dubbio la versione della vittima. I giudici della corte d’Assise di Palermo hanno condannato un uomo per sfruttamento della prostituzione, ma non hanno riconosciuto la donna come vittima di tratta. Nonostante i pagamenti dovuti le violenze subite, nella sentenza hanno scritto che fosse una prostituta volontaria.
A cura di Jennifer Guerra
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Un’altra sentenza si aggiunge al lungo elenco della rivittimizzazione operata dalla giustizia italiana negli ultimi tempi. Stavolta a farne le spese è una donna nigeriana di 27 anni, che aveva denunciato un suo connazionale, Silver Egos Enogieru, per sfruttamento della prostituzione. Secondo i giudici della corte d’Assise di Palermo, che hanno condannato l’uomo a due anni e sei mesi per sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la donna era però una “prostituta volontaria, da inquadrare, più correttamente nella nota diffusa categoria delle cosiddette sex-workers”, cosa che non sarebbe in contrasto con una situazione di tratta. In altre parole, i giudici hanno riconosciuto la presenza di uno sfruttatore, ma hanno sottolineato che la donna esercitasse liberamente la professione.

La storia della donna però sembra in profondo contrasto con una decisione volontaria e libera: la donna sarebbe partita dalla Nigeria del 2016, arrivando nel nostro Paese su un barcone dopo essere stata rinchiusa in un campo profughi per diversi mesi. Una volta in Italia, avrebbe conosciuto Enogieru, che l’avrebbe costretta a prostituirsi e a versargli 1.500 euro al mese, pena violenze fisiche.

La sentenza, hanno scritto in un comunicato realtà politiche, enti anti-tratta, associazioni, collettivi e individualità riunitesi nel congresso nazionale di Sex Workers Speak Out, “porta con sé la delegittimazione del faticoso lavoro di ricostruzione che immaginiamo abbia fatto la cittadina nigeriana insieme alle figure professioniste dell’antitratta che l’hanno sostenuta”. Dalla sentenza emerge infatti un uso strumentale del termine “sex worker” (lavoratrice sessuale), che viene descritta come la “categoria di quelle donne che preferiscono dedicarsi alla prostituzione piuttosto che lavorare o svolgere lavori poco remunerativi, come potrebbero esser quello della ‘shampista’ o di far capelli o di ‘far treccine’ o di lavorare presso qualcuno come domestico (etc etc)”. Rifacendosi a questa caratterizzazione, i giudici non hanno riconosciuto la 27enne come vittima di tratta o di riduzione in schiavitù, ma come una prostituta volontaria, nonostante i pagamenti dovuti al favoreggiatore e le violenze subite.

Il concetto di “sex work”, o lavoro sessuale, è nato dalle prostitute attiviste con l’obiettivo di cancellare lo stigma legato alla professione, sottolineandone appunto il carattere lavorativo a discapito del giudizio morale. Chi utilizza questo termine, solitamente enfatizza il tema dei diritti e della tutela delle lavoratrici e opera una distinzione netta tra tratta o sfruttamento e lavoro sessuale volontario, dal momento che non tutte le persone che si prostituiscono lo fanno perché costrette o minacciate. Allo stesso tempo, però, non nega l’esistenza di un sistema di sfruttamento sessuale come quello di cui era vittima la donna che ha denunciato Enogieru. “Il discorso sul sex work e per i diritti”, continua il comunicato, “non può essere utilizzato in maniera strumentale e in antitesi per negare il vissuto di una persona che denuncia una condizione di sfruttamento”, a maggior ragione dal momento che l’Italia non riconosce nemmeno la possibilità di prostituirsi in maniera volontaria.

Denunciare di essere vittima di tratta ed entrare a far parte del “Programma unico di emersione, assistenza e integrazione sociale” non è semplice. Secondo il ministero della Giustizia, solo il 37% delle vittime denuncia spontaneamente e a fronte di una sentenza simile non è difficile capire il perché. La definizione di sex work data dai giudici è estremamente problematica, dal momento che viene presentato come un’alternativa “facile” al lavoro, sebbene il concetto stesso di “lavoro sessuale” implichi che si tratta di una professione vera e propria. In più è difficile non notare quanto sia stereotipato l’elenco delle professioni a cui la donna, in quanto migrante dall’Africa, avrebbe rinunciato.

Nell’immaginario collettivo di questo Paese la donna afrodiscendente – a maggior ragione se straniera – è una persona che può occupare solo determinati ruoli lavorativi: in questo caso una donna di origine africana non può fare altro che le treccine”, dice a Fanpage.it Oiza QueensDay Obasuyi, contributor e ricercatrice per la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili e per Open Migration. “Sentendo quanto dicono i giudici, in Italia è ancora radicata l’idea che una persona straniera non possa autodeterminarsi, il lavoro è già dato, non hai alternativa, in questo caso hai solo le treccine. Sarebbe invece necessario anche chiedersi perché i percorsi professionali ed educativi delle persone straniere spesso non vengano riconosciuti”.

Secondo le autrici del comunicato di Sex Workers Speak Out “tutto questo rientra in una cultura razzista e colonialista per cui si è ‘meritevoli’ di aiuto solo se si soddisfano al cento per cento i criteri della vittima per antonomasia”. Usando una categoria in questo caso impropria come quella di sex work, alla donna non solo è stato negato il riconoscimento di una storia di evidente sfruttamento, ma a questa mancanza si è aggiunto il giudizio sulla sua condotta. Un ennesimo caso di colpevolizzazione secondaria dopo un’estate di sentenze che mettono sempre in dubbio la versione della vittima.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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