Pensioni, perché il taglio delle rivalutazioni è finito alla Corte costituzionale e cosa può succedere
Nelle manovre degli ultimi anni, le pensioni più alte hanno visto un taglio: per loro la rivalutazione in base all'inflazione non è stata piena, ma ridotta. È stato così nel 2022, per opera del governo Draghi, e poi soprattutto nel 2023 e 2024, quando l'aumento dell'assegno sarebbe stato più sostanzioso perché l'inflazione aveva raggiunto livelli altissimi. Un ex dirigente scolastico in pensione di 71 anni, Marco Panti, ha fatto ricorso alla Corte dei conti perché riteneva di avere il diritto a ricevere tutta la rivalutazione, non solo una parte. E ora il suo caso è arrivato alla Corte costituzionale. Se i giudici gli dessero ragione, per il governo potrebbe partire una serie di richieste di rimborso che costerebbe miliardi di euro.
Andando in ordine: ogni anno le pensioni aumentano, in percentuale, per restare al passo con la salita dei prezzi; il taglio di queste rivalutazioni è una pratica che esiste da tempo, e permette allo Stato di risparmiare riducendo l'aumento delle pensioni più alte. Quest'anno, ad esempio, tutti gli assegni avrebbero dovuto crescere del 5,4%. L'anno prima, del 7,3%. Ma questo è avvenuto solo per quelli di importo fino a quattro volte il minimo (quindi fino a 2.100 euro circa lordi), mentre tutte quelle superiori hanno avuto meno, con una riduzione sempre più forte al crescere dell'assegno.
Panti ha fatto ricorso contro i tagli avvenuti per le pensioni degli ultimi tre anni, chiedendo di ottenere l'intera somma a cui aveva diritto. Poiché lui ha una pensione di 5.708,11 euro lordi al mese, si trova oltre dieci volte sopra l'assegno minimo, e quindi ha subito i tagli più pesanti.
La Corte dei conti della Toscana ha deciso di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale, spiegando che il taglio della rivalutazione "lede non solo l'aspettativa economica ma anche la stessa dignità del lavoratore" pensione. Questo perché avere una pensione più alta non viene considerato "come il meritato riconoscimento per il maggiore impegno e capacità dimostrati durante la vita economicamente attiva", ma come "un mero privilegio, sacrificabile anche in un'asserita ottica dell'equità intergenerazionale".
La costituzione contiene "i principi della proporzionalità della retribuzione ‘alla quantità e qualità del suo lavoro' (art.36 Cost.) e la funzione propriamente previdenziale dei trattamenti pensionistici (art. 38 Cost.)", hanno continuato i giudici, e quindi la pensione deve restare proporzionale "non solo per assicurare al soggetto un trattamento economico commisurato all'attività lavorativa svolta ma per tutelare la stessa dignità del lavoratore che non può essere sminuita nel periodo successivo al collocamento in pensione".
La pronuncia della Corte costituzionale non arriverà a breve. Nel frattempo, il governo Meloni lavorerà sulla legge di bilancio per il 2025, dove potrebbe applicare nuovamente un taglio delle rivalutazioni. Ma se la Corte dovesse dare ragione al pensionato, si aprirebbero dei grossi rischi. Infatti, potrebbe partire una serie di ricorsi da parte di tutti i pensionati che negli ultimi tre anni hanno subito un taglio. Il costo di tutti i rimborsi, per lo Stato, potrebbe superare i 30 miliardi di euro.