Poche ore fa, il Consiglio dei ministri ha approvato la manovra di bilancio. Il governo ha destinato un miliardo di euro per il suo piano per la natalità che prevede, oltre alla riconferma dell’assegno unico e l’estensione del congedo parentale facoltativo, due novità: l’aumento del fondo per gli asili nido con l’obiettivo di renderlo gratis per il secondo figlio e la decontribuzione per le madri lavoratrici con due figli o più. Il taglio dell’iva sui prodotti per la prima infanzia, invece, non è stato riconfermato. “Noi vogliamo stabilire che una donna che mette al mondo almeno due figli ha già offerto un importante contributo alla società e quindi lo Stato in parte compensa pagando i contributi previdenziali”, ha detto la presidente Meloni in conferenza stampa. “Vogliamo smontare la narrativa per cui la natalità è un disincentivo al lavoro. Vogliamo incentivare chi mette al mondo dei figli e voglia lavorare”.
La direzione delle politiche nataliste del governo è chiara ed è quella di un sistema che premia non solo chi fa figli, ma chi ne fa tanti (ovvero meno del 20% delle famiglie italiane). Poche settimane fa Meloni, dal palco del Demographic Summit di Budapest, elogiava le iniziative per la natalità di Victor Orbán, che ha previsto diverse agevolazioni per le famiglie numerose, tra cui l’esenzione delle tasse dalla nascita del quarto figlio. Come già era evidente dalla legge di bilancio, il governo è convinto che la fertilità si incentivi con il denaro: bonus, voucher, premi e agevolazioni fiscali che senz’altro hanno un peso nei progetti di genitorialità degli italiani, ma che forse non sono l’unico motivo per cui i giovani non fanno il primo figlio, figurarsi due o tre. Sappiamo infatti, dall’età media del primo parto, che il problema è la nascita del primo figlio, che viene rimandata sempre di più nel tempo, mentre il passaggio dal primo al secondo figlio sta diventando più rapido. Il fatto che più figli hanno, meno le donne sono presenti sul mercato del lavoro è comprovato, ma la sfida della natalità si gioca sul primo figlio. Questa iniziativa sembra piuttosto andare nella direzione di agevolare le famiglie con molti figli, come già è successo con l’assegno unico incrementato del 50%, una richiesta che proveniva anche dalle associazioni delle famiglie numerose che spesso e volentieri gravitano nella galassia pro-life.
A differenza di Orbán, che non si risparmia i video propagandistici per indurre le madri a lasciare il lavoro e restare a casa, il governo italiano però non è ancora pronto a sacrificare la questione dell’occupazione femminile. Ma lo fa in modo discutibile: in Italia nel corso degli anni sono stati innumerevoli i tentativi di favorire la presenza delle donne sul mercato del lavoro attraverso gli incentivi fiscali, non da ultimo il contributo per l’assunzione di donne disoccupate da almeno 6 mesi presente nell’ultima legge di bilancio. Ma queste misure non sono mai riuscite a incidere in modo significativo sul lavoro femminile: l’Italia continua ad avere un tasso di occupazione femminile molto al di sotto della media europea (49,4% contro il 63,4%), per non parlare del dilagare del part time involontario e del cosiddetto “lavoro povero”. Qualsiasi politica che vuole favorire l’occupazione delle donne dovrebbe concentrarsi non solo sull’assunzione, ma sulla garanzia di ottenere un lavoro stabile, ben retribuito e alle giuste condizioni. Questa visione non sembra nei progetti del governo e basta sentire le parole con cui la premier ha commentato la manovra per capire perché.
Pensare che le donne – e loro soltanto – “offrano un importante contributo alla società” nel fare più di due figli è un’idea mortificante, per le donne, per gli uomini e pure per i bambini. Intanto perché le donne offrono importanti contributi alla società a prescindere che abbiano avuto dei figli o meno. Se Meloni ogni tanto si ricordasse di parlare di donne non solo come madri (o al massimo come vittime di violenza, o del gender, o dell’“utero in affitto”) si potrebbe pensare che si sia trattato soltanto di una scelta di parole infelice, ma viene sempre più il dubbio che, a parte quando parla di sé, per Meloni il ruolo delle donne in Italia sia soltanto quello di farsi martiri per la causa della natalità. Da sole, ovviamente, perché i padri nella nazione meloniana non sono pervenuti. Non lo sono a livello politico – finora nessuna iniziativa li ha riguardati nello specifico – ma nemmeno dell’immaginario: le poche volte che sono nominati, lo sono in abbinata con le madri.
E forse sarebbe anche ora di smettere di pensare ai figli come “contributi” per il futuro, come risorse per pagare le pensioni o fermare l’inesistente “sostituzione etnica”, ma pensare a loro come persone che hanno diritti, bisogni e desideri propri, non come numeri per far salire l’Italia nella classifica dei Paesi con meno figli al mondo. Per capire cosa comporta il successo dell’aumento percentuale della fertilità quando non è accompagnato dalla tutela dei diritti e della dignità delle persone basta osservare l’Ungheria. E la cosa ancora più svilente è che, andando avanti così, ci troveremo con sempre meno libertà, ma neanche uno zero virgola percento di figli in più nel prossimo rapporto dell’Istat.