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Pena di morte nel 2024, il rapporto di Amnesty: “Boom di esecuzioni, dato più alto dal 2015”

Nel 2024 le esecuzioni capitali hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi dieci anni, con almeno 1.518 persone giustiziate, secondo Amnesty International. Il picco è stato trainato da Iran, Iraq e Arabia Saudita, mentre cresce il fronte dei Paesi abolizionisti e il numero degli stati esecutori resta storicamente basso.
A cura di Francesca Moriero
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Credit: Amnesty International
Credit: Amnesty International

Nel 2024 il mondo ha assistito a un drammatico incremento nell'uso della pena capitale: secondo il rapporto annuale di Amnesty International, Condanne a morte ed esecuzioni 2024, sono state almeno 1.518 le persone giustiziate, il dato più alto dal 2015. Un bilancio che restituisce l'immagine di una giustizia utilizzata come strumento di controllo, repressione e intimidazione, più che come mezzo di tutela della sicurezza pubblica. Il fenomeno, concentrato soprattutto in Medio Oriente, si accompagna a gravi violazioni dei diritti umani, come condanne per reati legati alla droga o processi iniqui. Per fortuna, però, il quadro globale non è solo negativo: accanto alla recrudescenza in alcuni Paesi, emerge anche una tendenza crescente all’abolizione o alla sospensione della pena capitale, con 113 stati ormai abolizionisti e un numero di paesi esecutori che resta storicamente basso.

Un picco di esecuzioni, spinto da Iran, Iraq e Arabia Saudita

Nel 2024 le condanne a morte eseguite hanno toccato quota 1.518, con un incremento netto rispetto agli anni precedenti e un dato che non si registrava da quasi un decennio. A trainare questo aumento sono stati tre Paesi mediorientali, Iran, Iraq e Arabia Saudita, responsabili da soli del 91% delle esecuzioni confermate. L'Iraq ha quasi quadruplicato i propri numeri, l'Arabia Saudita li ha raddoppiati, e l'Iran ha messo a morte quasi mille persone, molte delle quali per reati di droga o legati alle proteste contro il regime. Insieme, questi tre stati hanno giustiziato almeno 1.380 persone. Lontano dai riflettori restano invece Cina, Corea del Nord e Vietnam, dove l'opacità del sistema impedisce un monitoraggio accurato; Amnesty ritiene però che in questi Paesi le esecuzioni continuino ad avvenire su larga scala, anche per reati che non rientrano tra i più gravi secondo il diritto internazionale.

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Repressione mascherata da giustizia

Uno degli aspetti più inquietanti messi in luce dal rapporto è l'uso strumentale della pena di morte da parte di regimi autoritari o governi repressivi. In Iran e Arabia Saudita, in particolare, le esecuzioni hanno colpito manifestanti, attivisti per i diritti umani, membri di minoranze etniche e religiose. Spesso, le condanne sono state inflitte al termine di processi privi di garanzie, basati su confessioni estorte con la tortura. Lo stesso schema si è osservato anche in altri contesti: il rapporto indica che in Arabia Saudita, ad esempio, sono stati giustiziati sciiti accusati di terrorismo per aver preso parte a proteste pacifiche; in Iran, due persone coinvolte nel movimento "Donna Vita Libertà", tra cui un giovane con disabilità mentale, sono state messe a morte in relazione alle manifestazioni antigovernative. Anche negli Stati Uniti, dove nel 2024 sono state eseguite 25 condanne a morte, la retorica politica ha spesso alimentato una visione punitiva della giustizia: le dichiarazioni del presidente Donald Trump in favore della pena capitale nei confronti di "stupratori e assassini" hanno contribuito a legittimare un uso distorto di questa misura estrema.

Droghe e disuguaglianze: la pena capitale usata contro i più deboli

Oltre il 40% delle esecuzioni registrate nel 2024 è stato legato a reati di droga. Una pratica che, secondo gli standard internazionali, rappresenta una violazione del diritto alla vita, poiché la pena capitale dovrebbe essere limitata ai "reati più gravi", come l'omicidio. In Paesi come Cina, Iran, Arabia Saudita e Singapore, la condanna a morte continua, tuttavia, a essere applicata per traffico o possesso di sostanze stupefacenti, colpendo in modo sproporzionato persone provenienti da contesti svantaggiati. Amnesty, nel suo rapporto, sottolinea come questa politica non solo sia inefficace nel contrastare il traffico di droga, ma rischi di rafforzare le disuguaglianze sociali e alimentare un sistema giudiziario punitivo e discriminatorio.

Il lato della speranza: cresce il fronte abolizionista

Nonostante il picco di esecuzioni, il 2024 ha confermato anche una tendenza positiva: il numero degli stati che ricorrono alla pena di morte si è fermato a 15. In totale, sono ora 113 i Paesi che hanno abolito la pena capitale per tutti i reati, mentre 145 l'hanno eliminata per legge o nei fatti. Importanti progressi si sono verificati anche sul piano legislativo e diplomatico: lo Zimbabwe, per esempio, ha abolito la pena di morte per i reati comuni, mentre in Malesia una riforma ha portato alla riduzione di oltre mille condanne nei bracci della morte. Per la prima volta, più di due terzi dei membri delle Nazioni Unite hanno poi votato a favore di una moratoria globale. La mobilitazione internazionale continua a portare risultati: tra i casi simbolici, spicca quello di Hakamada Iwao, liberato dopo quasi 50 anni nel braccio della morte in Giappone, e quello di Rocky Myers, la cui condanna a morte è stata commutata in ergastolo negli Stati Uniti grazie al sostegno di familiari, attivisti e membri della comunità.

Un futuro senza pena di morte è possibile

Il rapporto di Amnesty fotografa un mondo diviso tra chi insiste a utilizzare la pena di morte come strumento di potere e chi sceglie la via dei diritti umani: se da un lato il 2024 ha mostrato i volti più crudeli della giustizia punitiva, dall'altro ha messo in luce la forza delle campagne globali e il peso crescente del fronte abolizionista. Il cambiamento, seppur lento, appare inarrestabile: nonostante la pena capitale sia ancora una realtà certa in troppi Paesi, l'obiettivo di un mondo libero dal patibolo potrebbe essere vicino.

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