Questa davvero non ce l'aspettavamo. Certo, in un periodo in cui la cronaca politica si mescola con il gossip ed il dibattito si è ormai stabilmente spostato dal parlamento ai talk show, era lecito attendersi di tutto. Ma sinceramente che il Ministro dello Sviluppo Economico bollasse come incomprensibile e contraddittoria l’iniziativa di influenti professionisti del web e di autorevoli esponenti della società civile per dare finalmente all'Italia una Agenda Digitale, era al di là di ogni immaginazione. In poche parole, Agenda Digitale per il futuro dell'Italia nasce dall'esigenza di "sollecitare l’impegno di tutte le forze politiche, affinchè pongano il tema della strategia digitale al centro del dibattito politico nazionale" e parte dalla constatazione dei limiti dei processi di innovazione tecnologica e di superamento del digital divide riscontrabili in Italia, nazione che in questo campo "affronta da tempo un ritardo, non solo economico, ma anche infrastrutturale e culturale, rispetto alle principali economie occidentali".
Per il Ministro Paolo Romani invece non è accettabile che tra i firmatari vi sia "proprio chi partecipa attivamente ai progetti del governo a sostegno della realizzazione delle nuove reti", come sottolineato da Roberto Sambuco, Capo dipartimento per le Comunicazioni del ministero dello Sviluppo economico. Insomma, secondo la linea del Ministro, chi partecipa ad un tavolo di discussione o a dei progetti che coinvolgono il Governo, perderebbe in qualche modo il diritto di critica e dovrebbe abdicare a quella funzione di "stimolare la politica a compiere scelte decisive sulla via dell'innovazione e del progresso". Tanto più che forse al Ministro sfugge il senso profondo dell'appello dei firmatari del Manifesto di Agenda Digitale, che va oltre il pur necessario piano delle infrastrutture della banda larga (terreno sul quale il nostro Paese sconta comunque un significativo ritardo).
Ancor più probabilmente l'uscita del buon Romani riflette una concezione del dibattito e del confronto tipica di tanta politica, in una scala valoriale che vede la tutela dei propri interessi venire prima del contributo alla crescita collettiva. Ecco dunque che gli stimoli provenienti dalle varie componenti della società vengono derubricati a "lamentele di gruppi di interesse", gli inviti al dialogo diventano "intralci al governo del fare", le riflessioni e le critiche portano i germi di "un utilizzo strumentale ed ideologico": il tutto omogeneizzato in una visione che mortifica lo scambio di opinioni e lo stesso rapporto fra politica e società civile.
Del resto Romani non è nuovo a simili irruenti uscite e il suo stesso approdo al Dicastero dello Sviluppo Economico è stato uno dei casi più clamorosi degli ultimi anni. Ricorderete infatti le burrascose dimissioni di Scajola e il lungo interim del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (in clamoroso conflitto di interessi, tra l'altro) poi conclusosi con l'affidamento dell'importante ruolo al "fido" sottosegretario con delega alle comunicazioni, campo nel quale aveva già in precedenza regalato perle memorabili, come il cosiddetto "bavaglio al web" contenuto appunto nel Decreto Romani, in seguito relativamente modificato, testimonianza chiara di quale sia la sua considerazione del web e diremmo in generale della libertà di espressione. Certo, magari l'ex editore di "Colpo Grosso" preferirebbe che il dibattito si svolgesse su campi a lui più noti e congeniali, in fondo in fondo…è poi cosi importante colmare il digital divide ed elaborare un piano organico per garantire innovazione e competitività all'Italia?