Le certezze non appartengono a questa fase della politica italiana, ormai dovremmo averlo capito da tempo. Così è stato per il "mai con il Pdl" di Bersani e compagni, per il "no categorico ad un secondo mandato" di Napolitano (scegliendo fior da fiore) e così potrebbe essere anche per quella che molti considerano come l'inevitabile fine del Governo Letta nel caso in cui la Giunta per le elezioni ratificasse la decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica di senatore. La "minaccia" più o meno esplicita (a seconda del contesto e dell'incaricato…) è nota: se il Quirinale non garantisce l'agibilità politica del Cavaliere e se la Giunta del Senato (con i voti determinanti del Pd) si esprime per la sua decadenza, allora i parlamentari del Popolo della Libertà sono pronti ad accelerare la crisi di Governo con le loro dimissioni in massa. Il punto è che per essere "credibile" una simile minaccia deve essere accompagnata da numeri certi e da una precisa volontà politica.
Di numeri si discute in queste ore al Nazareno, quartier generale del Partito Democratico. In effetti, a ben guardare, le possibilità che il Governo sopravviva anche senza l'apporto pidiellino sono scarse, valutando improponibile ogni convergenza con il Movimento 5 Stelle (per una serie di ragioni peraltro già ampiamente dibattute negli ultimi mesi). Però, ed è considerazione diffusa in casa democratica, sulla reale compattezza degli eletti berlusconiani c'è più di qualche dubbio e sono in molti a pensare che un drappello di "colombe" sarebbe pronto a staccarsi dai banchi del centrodestra e planare magari su quelli del Governo. E allora, occorre ragionare di numeri, come fa Luca Sappino su L'Espresso:
Il problema, come noto, è al Senato. Lì 108 sono i senatori del Pd e 20 quelli di Scelta Civica. Dieci in tutto, i senatori autonomisti che stanno insieme al Psi di Nencini. Si potrebbero pescare i 7 senatori di Sel, certo più disponibili verso un governo senza più Berlusconi (i vendoliani però lasciano intendere che preferirebbero un governo con una guida diversa, magari di Matteo Renzi, «un nuovo governo di scopo», ragiona in pura ipotesi Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera, «per poi, riformata la legge elettorale, tornare al voto»). Poi ci sono i fuoriusciti del M5S: sono tre e vengono dati per ‘interessati'. Ma da convincere. Certamente più facili da imbarcare sono invece i senatori iscritti al ‘Gal', gruppo Grandi Autonomie e Libertà, ma non sono di più di 7. Quindi – anche dando tutti questi per assoldati, in astratto – saremmo a 155 senatori: non lontani dai 159 necessari, ma lontani da una ragionevole stabilità. Una stabilità che accontenti Napolitano.
Dunque servirebbero una decina di "colombe", di fuoriusciti pidiellini (o dissidenti 5 Stelle), per garantire al Governo il superamento dei primi scogli parlamentari (la probabile mozione di sfiducia, in caso di ufficializzazione dello strappo). Ma, così continua il ragionamento degli strateghi democratici, teoricamente il Governo potrebbe anche sopravvivere con una sorta di "maggioranza variabile", sulla scorta del modello "prima Repubblica". Una formula simile a quella del "Governo di minoranza" già bocciata dal Colle mesi addietro, ma diversa nella sostanza, dal momento che questa volta si tratterebbe di sfiduciare un esecutivo in carica, che ha l'appoggio e la benedizione di Napolitano e che si prepara a chiudere provvedimenti centrali per il futuro del Paese e, cosa da non sottovalutare, a guidare l'Unione Europea per un semestre. E che si vada verso un nuovo sdoganamento del "trasformismo" e dei "ribaltoni" è un rischio che in casa democratica in particolare sembrano decisi a prendere (anche considerando i travagli interni di un partito già in piena fase congressuale). Del resto, la formula della "responsabilità" e della "emergenza continua" è già stata usata in passato per digerire bocconi amari. Certo, il rischio è che stavolta davvero di tattica non muoia solo il Governo, ma anche il Paese.