Più o meno ingenuamente, qualcuno di noi aveva anche creduto che l’epidemia da coronavirus potesse tirar fuori il meglio di noi stessi, prefigurando addirittura la nascita di una nuova società della cura, in cui al centro vi fossero i bisogni degli individui, la difesa dei soggetti più fragili ed esposti, la salute collettiva. E, in effetti, nella fasi iniziali dell’epidemia sembrava potersi imporre l’idea che dalla crisi si dovesse uscire solo con un gigantesco sforzo collettivo, tramite la responsabilizzazione di ognuno di noi, con l’obiettivo di non lasciare indietro nessuno. Probabilmente ci si era illusi di riuscire ad arginare una delle caratteristiche fondanti della moderna società capitalista-consumista, la sua incapacità di porsi dei limiti e di accettare che esista un limite invalicabile: la tutela della vita umana. Ancora una volta, insomma, la crisi sta mostrando il volto peggiore della società moderna, complice una politica incapace di gestire e guidare i processi, capace solo di compiacere i bassi istinti dell’opinione pubblica e di piegarsi agli interessi economici e finanziari.
La sommatoria degli interessi di parte e di una coscienza collettiva addomesticata dalla paura e dal terrore dell'abisso ha determinato ciò cui stiamo assistendo in questi giorni. Nei fatti, a pagare il prezzo maggiore della crisi sono ancora una volta le persone più deboli, più esposte, con meno legami e riferimenti nelle stanze dei bottoni, in una sorta di triste riproposizione del film già visto nel 2008, quando a soffrire le conseguenze del crollo del sistema finanziario furono le fasce più deboli della popolazione. "Il virus ha spazzato via le classi sociali più deboli", dice l'onnipresente assessore lombardo Gallera, come se fosse la cosa più normale del mondo e come se non toccasse anche a lui impedire che ciò accada.
Il filosofo Byung Chul Han parla apertamente di una condizione in cui vengono esasperate le caratteristiche della "società della sopravvivenza", che anzi mostra con chiarezza il suo "volto inumano, con l’Altro che è prima di tutto un potenziale portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze"; del resto, cos'altro c'è da aspettarsi in un momento in cui parole come "vicinanza e contatto" diventano sinonimi di pericolo e contagio? In questo contesto, l'idea che l'epidemia potesse produrre un forte senso di comunità si è rivelata effimera, buona forse per qualche slogan o qualche canzone dal balcone. Alla prova dei fatti, l'opinione pubblica si è dimostrata completamente anestetizzata dalle immagini e dai numeri di una tragedia epocale, tanto da non aver la forza di comprendere cosa stesse accadendo. Non disturbare il manovratore, non polemizzare, non discutere le indicazioni degli esperti, per quanto confuse e contraddittorie fossero, non osare mettere in discussione l'idea che andrà tutto bene e che il Paese stia compiendo un'impresa eccezionale: la narrazione dominante è pressappoco questa.
E nel frattempo, nella cecità complessiva, a pagare il prezzo più duro della crisi sono stati sempre gli stessi.
Gli operai e i lavoratori delle aziende delle Regioni colpite, mandati letteralmente al macello per giorni e giorni, perché "la produzione non poteva fermarsi" e pazienza se nella stragrande maggioranza dei casi non è stato possibile garantire le minime di condizioni di sicurezza. Ci sarà il tempo di fare chiarezza sulla zona rossa tra Nembro e Alzano, ci dicono, ma la realtà dei fatti è che non sarà così, che non c'è solo la Val Seriana e che è davvero troppo tardi. E poi, ve ne state accorgendo, sono sempre più forti le sirene del "riapriamo", malgrado non sappiamo ancora quanti siano i morti da coronavirus, non abbiamo ancora idee precise del numero di contagiati, non ci sono protocolli univoci su come gestire i guariti, gli asintomatici e paucisintomatici, non ci sono ancora le dotazioni di sicurezza per parte degli operatori sanitari, figurarsi per gli operai.
Quando la polvere si poserà, magari parleremo degli anziani nelle case di riposo, dell'ecatombe silenziosa che ha portato via migliaia di vite, senza che ci si prendesse la briga neanche di registrare i dati. Strutture abbandonate a se stesse, senza sostegno delle autorità sanitarie e spesso trattate alla stregua di lazzaretti in cui mandare i malati da Covid19. L'Istituto Superiore di Sanità, anche questa volta intervenuto con colpevole ritardo, stima che circa il 40% delle morti nelle Rsa sia da attribuirsi al coronavirus: una vera e propria strage, il simbolo di una società che abbandona la propria memoria storica e lascia indietro i più deboli. Era davvero così difficile da prevedere che il coronavirus potesse impattare in modo così devastante sulle Rsa, soprattutto visti i numeri della Cina? Lo spiega al Manifesto Luca Degani, presidente Uneba Lombardia: "Sono luoghi in cui vivono anziani non autosufficienti, cioè le persone che fin dall’inizio era risaputo fossero a maggior rischio di mortalità. Non dovevano essere usate per deflazionare gli ospedali, ma aiutate a prendersi carico di una situazione infettiva rispetto alla quale non sono adeguate". Potevamo saperlo, lo sapevamo, ce ne siamo fregati o non siamo stati capaci di fare molto.
Il senso profondo di una comunità è l'aver cura degli ultimi, non lasciare indietro nessuno, dicevamo. La condizione delle carceri italiane nell'epoca della quarantena da coronavirus è il primo schiaffo in faccia a tale idea di comunità, il secondo è l'assenza di un piano per tutelare chi vive ai margini della società nelle grandi città: migliaia di persone dimenticate, che hanno perso finanche la possibilità di "accedere alla solidarietà", con il lockdown che ha svuotato le strade, chiuso mense e centri di accoglienza.
Ma del resto, siamo nel tempo in cui un governo usa l'emergenza coronavirus per chiudere i porti e impedire lo sbarco di un centinaio di profughi (dopo aver già bloccato le commissioni per l'esame delle richieste di protezione internazionale). Come vi stiamo raccontando, i ministri Lamorgese, Speranza, De Micheli e Di Maio hanno firmato il decreto con il quale il governo dichiarerà che l’Italia non è più da considerarsi un porto sicuro e dunque non può più accogliere i profughi che partono dalle coste della Libia. Un provvedimento dalla dubbia legittimità, che è il manifesto di tutto ciò che avevamo promesso di non diventare.
Ci sono milioni di esistenze da sostenere, ci sono reti di relazioni e rapporti da ricostruire completamente, ci sono valori da salvare, comunità dalle quali ricominciare, vite cui dare un senso: non ha senso farlo dimenticando che esistiamo solo in relazione agli altri, che tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta è negli occhi dell'altro. Restiamo umani, dicevamo.