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Oleg Mandic, l’ultimo bambino a lasciare vivo Auschwitz: “Dio lo penso con disgusto”

Oleg Mandic è l’ultima persona viva ad aver lasciato Auschwitz, dopo la liberazione dell’Armata Rossa. Con lui si chiuse quel cancello.
A cura di Saverio Tommasi
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Oleg M
Oleg Mandic

Oleg Mandic è l'ultimo bambino ad aver lasciato vivo Auschwitz, dopo la liberazione dell'Armata Rossa.
Sette mesi prigioniero nel campo di sterminio, poi restò lì ancora per un mese dopo la liberazione, aspettando il passaggio giusto per tornare a casa. Non era facile sopravvivere neanche nel campo ormai liberato dai nazisti: "In una settimana morirono il 20% delle persone rimaste, i cadaveri in terra erano così tanti che non li raccoglievamo neanche più. Non c'era più nessun nazista a ucciderli, morivano però a causa della denutrizione, del freddo, delle malattie, cioè le conseguenze del metodo scientifico di debilitazione fisica usato dai nazisti per l'eliminazione dei prigionieri, e che ancora dava i suoi frutti, anche dopo che se ne furono andati", così mi ha raccontato Oleg Mandic i giorni successivi alla fuga dei nazisti dal campo di sterminio di Auschwitz.

Un ringraziamento, prima di iniziare: il mio incontro con Oleg Mandic è stato possibile grazie al Festival della Memoria living memory, ideato da Terra del Fuoco Trentino, e a Paolo Paticchio fondatore e presidente dell'associazione Treno della Memoria. Grazie.

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E ora un passo nella Storia: Oleg Mandic fu deportato nel campo di sterminio quando aveva 11 anni, su un vagone bestiame insieme alla mamma e alla nonna.

Il racconto di Oleg Mandic inizia così: "Il mio numero era 189488, me lo tatuarono appena arrivati, tempo mezz'ora dall'arrivo al campo di sterminio e persi il mio nome per diventare un numero.
A proposito di numeri tatuati a forza, ti racconto questo: talvolta, nella mia vita successiva, avevo la possibilità di trovare qualcuno in spiaggia che il suo numero non lo aveva tatuato sul braccio, ma sulla coscia, in alto, praticamente sul fianco. Ora te la faccio io una domanda: tu sai perché?"

No…

Perché erano nati ad Auschwitz, erano bambini.

Lei crede?

A chi?

A un Dio.

No. Io Dio l'ho seppellito ad Auschwitz.
Io ero credente il giorno in cui sono entrato ad Auschwitz, ma Dio l'ho lasciato lì.

Non l'ha più incontrato?

No, e quando ci penso lo faccio con disgusto, perché se Dio esistesse – onnipotente come lo presentano – Auschwitz non lo avrebbe permesso.

Magari è invece impotente rispetto alle decisioni delle persone?

Questa discussione la lascio ai filosofi e a chi vuole dedicarsi a questo, a me fa incazzare.

Facciamo un passo indietro, lei è nato nel 1933 ed è di Abbazia. Fino a quando vi rimase?

Fino alla deportazione ad Auschwitz.

Lei si sente più croato o più italiano?

I nazionalismi non li tollero, mi fanno schifo.

Torniamo al viaggio per arrivare ad Auschwitz. Ricorda qualche odore?

Sì, odore di piscio e di cacca, era l'unico odore che c'era, era tremendo. Anche quelle piccole finestrelle che di solito ci sono per far prendere aria alle bestie, erano state chiuse con dei pezzi di legno, imbullettate.
Dentro ogni vagone c'era un barile per le necessità, davanti a tutti, uomini e donne.
Il terzo giorno, quando siamo arrivati e siamo usciti, abbiamo visto una scritta sulla parete: Auschwitz. Ma non sapevamo ancora cosa fosse.

Quando avete iniziato a capire cosa fosse Auschwitz?

Iniziò così: "Maschi da una parte, donne e bambini dall'altra". Io rimasi con la mamma e con la nonna, eravamo 900, o forse 1.000.
Ricordo una grande sala, in fondo c'erano una decina di tavoli e in fondo degli scribacchini. Eravamo invitati a formare delle colonne per ogni tavolo, fatto questo dovevamo svestirsi e restare nudi. Mia madre iniziò a protestare, e uno degli scrivani le disse: "Ma tu, donna, cosa vuoi? Lo sai dove ti trovi?"
Mia madre rimase zitta, e lui disse: "Auschwitz è un campo di sterminio".

Poi ci portarono al Block numero 10, lì c'erano altre detenute che quando ci videro dissero: "Ma voi chi siete? Cosa volete?"
Siamo arrivati oggi, eravamo in quella che chiamano "sauna", rispondemmo. E loro si misero a ridere, dicendo: "Penvamo foste già in fumo".
Noi le guardammo, non capivamo e chiedemmo: "Cosa vuol dire in fumo?"
E loro: "Ma voi scherzate? Dove credete di essere?"

Chi era Oleg Mandic, quando è entrato nel campo?

Ero un ragazzino di 11 anni a cui avevano appena rubato l'infanzia.

Lei come è sopravvissuto al campo?

Fortuna, soltanto fortuna. Almeno per l'80% fortuna.

Lei ha passato anche una selezione?

Sì. Le selezioni nel campo avvenivano così: facevano mettere ogni Block cinque persone per fila. Poi eliminavano la quarta.

Lei nel campo ha conosciuto anche un bambino, si chiamava Tolja, vero?

Sì. Eravamo sui letti a tre altezze, due per letto, e io fui messo insieme a un piccolo ucraino, aveva circa 8 anni e tremava sempre, aveva la febbre.
Lui mi raccontava delle immense praterie gialle di grano, e io gli raccontavo del mare. Io non avevo mai visto le distese di grano, e lui non aveva mai visto il mare. Di notte lo abbracciavo per dargli un po' di calore e non farlo più tremare. Una mattina, effettivamente, non tremava più. Ero contento, pensavo stesse meglio, invece dopo un po' mi accorsi che era morto.

Che cosa si mangiava?

Prima ti dico questo: in 8 mesi non ho bevuto un solo sorso d'acqua, perché era putrida. A mezzogiorno ci davano la "lager zup", una brodaglia. Per avere il cucchiaio, o una ciotola, dovevi organizzarti. Il verbo "organizzare" all'interno del campo di concentramento voleva dire tutto, soprattutto rubare, anche le scarpe. Se non ti "organizzavi" eri considerato uno stupido, e saresti morto. I valori della vita fuori dal campo erano completamente ribaltati.

Ha in mente anche un altro esempio, sui rapporti di disumanizzazione all'interno del campo?

Ero presente quando uccisero a bastonate una prigioniera che non si era presentata in tempo all'appello. Non c'era neanche un tedesco, la uccisero a bastonate altri prigionieri, che non ne potevano più di aspettarla per ore sotto la pioggia e nel fango.
La cosa più terribile è che se mi avessero messo in mano un manganello, in quel momento, l'avrei presa a bastonate anche io. Avrei potuto ucciderla anche io. E' a questo che ti porta il campo di concentramento.

Lei è mai tornato ad Auschwitz?

Due mesi fa ci sono tornato per la tredicesima volta. Per tre volte ci sono andato per ragioni terapeutiche. Quando non mi sentivo bene, facevo il pieno all'auto e andavo ad Auschwitz. C'è chi va dallo psicologo, io andavo dal benzinaio. Arrivavo verso le cinque, le sei di pomeriggio, facevo vedere il tatuaggio e mi lasciavano passare.
Mi sedevo sui binari, e mi mettevo in comunicazione con le anime di chi non ce l'ha fatta. Nel 1944 c'era un albero, e ha vissuto lì fino a quattro anni fa. Per me rappresentava un'anima di quelli che non ce l'hanno fatta.

Lei ha mai portato via qualcosa da Auschwitz?

Lei ne sa qualcosa di troppo, è la prima volta che mi fanno questa domanda. So che non avrei dovuto, però l'ho fatto. Ho preso la prima pietra dal cumolo delle macerie del crematorio numero 2, la tengo sulla scrivania, come fermacarte.
Lei è conosciuto anche con la dizione "l'ultimo bambino uscito vivo da Auschwitz".

E' vero, fui l'ultima persona a uscire, dopo di me chiudemmo il cancello. Sono entrato nella Storia, per colpa di un inciampo.

Lei ha sempre raccontato la sua storia?

Ho iniziato dieci anni dopo. Non volevo neanche più leggere in lingua tedesca, l'avevo ripudiata. Poi, lavoravo come giornalista, il capo redattore mi fece una sfuriata: "Il trauma che tu hai vissuto, e di cui siamo consci tutti noi, non è soltanto un affare tuo, appartiene a tutti noi, a tutta l'umanità. Se hai un briciolo di coscienza devi aprire le porte della tua conoscenza". Io me ne andai sbattendo la porta, ci riflettei per tre giorni e arrivai alla conclusione che la ragione stava dalla sua parte. Il 18 marzo 1955 scrissi il mio primo articolo.

Grazie, signor Oleg Mandic.

Grazie a te, ho parlato tantissimo e non sono ancora stanco.

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Sono giornalista e video reporter. Realizzo reportage e documentari in forma breve, in Italia e all'estero. Scrivo libri, quando capita. Il più recente è "Siate ribelli. Praticate gentilezza". Ho sposato Fanpage.it, ed è un matrimonio felice. Racconto storie di umanità varia, mi piace incrociare le fragilità umane, senza pietismo e ribaltando il tavolo degli stereotipi. Per farlo uso le parole e le immagini. Mi nutro di video e respiro. Tutti i miei video li trovate sul canale Youmedia personale.
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