A quasi due mesi dal primo caso certificato di Covid-19 in Italia e a 40 giorni dall’entrata in vigore delle misure di contenimento, il dibattito pubblico si è spostato sulla “riapertura”, ovvero sulle tempistiche e sulle modalità con le quali passare alla cosiddetta fase due, che prevede il graduale allentamento del lockdown e un primo passo verso la nuova normalità. Prima di qualunque discussione sulla fase due, però, bisognerebbe interrogarsi sulla fase uno, ovvero sulla situazione attuale, sulla diffusione dell’epidemia nel nostro Paese e sugli effetti concreti delle misure di restringimento delle libertà personali e delle attività lavorative impostate dal governo Conte.
Non è semplicissimo districarsi nella giungla di numeri e analisi sulla diffusione del coronavirus, soprattutto considerando le critiche e i dubbi su ciò che viene comunicato ai cittadini e agli addetti ai lavori durante l’ormai tradizionale conferenza stampa della Protezione Civile delle 18. Dati che sottostimano la portata di morti e contagiati totali, ma soprattutto che non riescono a fornirci mai una fotografia chiara sulla diffusione dell’epidemia sul territorio nazionale. Ci sono molti fattori che determinano questo quadro di grande incertezza, legati certo al modo in cui operano le singole Regioni e a una catena di trasmissione dei dati che si inceppa spesso e volentieri, ma determinati in particolare dalle tempistiche non lineari di incubazione del virus e dalla capacità diagnostica del sistema sanitario italiano. Come ha spiegato Rezza, in effetti, invece che di nuovi contagi giornalieri, sarebbe più corretto parlare di nuove “notifiche di contagio”.
In tale ottica, il dato da considerare per capire come stia andando non è quello dei “contagi giornalieri” (che appunto può dipendere da numero di tamponi effettuati, dal tempo di incubazione o di consegna dei risultati), ma quello dei casi di Covid-19 diagnosticati per data di inizio dei sintomi, un parametro più affidabile perché ci consente di capire l’evoluzione del contagio nel corso del tempo e lo stato di diffusione della malattia. Come spiega l’ISS, tale analisi è possibile solo in 87.954 dei 159.107 casi segnalati, visto che una parte dei casi diagnosticati non ha ancora sviluppato sintomi e i dati non sono ancora consolidati (a causa del sovraccarico di lavoro cui sono sottoposti gli operatori). A ogni modo, questo grafico dell’ISS mostra la distribuzione dei casi per data inizio dei sintomi ed evidenzia come i primi casi sintomatici risalgano alla fine di gennaio, con un andamento in crescita fino al 13 marzo 2020:
Dal grafico sembrerebbe dunque che la situazione sia sotto controllo e che il picco sia stato raggiunto il 13 marzo; in questa ottica, il persistere di un numero piuttosto consistente di “nuovi contagi giornalieri” sarebbe determinato dal maggior numero di tamponi effettuato e dal miglioramento delle tempistiche con cui vengono ora diagnosticati i casi di Covid-19.
Tale lettura, confermata dai vertici dell’ISS (secondo cui “da tempo si evidenzia una diminuzione della trasmissione”), è in parte contestata da alcuni analisti. Per Nino Cartabellotta, della Fondazione GIMBE, la riduzione dei casi è invece inferiore a quanto atteso, soprattutto se si considerano le variazioni settimanali: “Se, infatti, si è ridotto il numero dei pazienti ricoverati con sintomi (-3,0%) e soprattutto di quelli in terapia intensiva (-16,6%), si rileva un aumento dei casi totali del 18,0% (+25.733), di cui 3.976 decessi (+22,5%)”. Tali riscontri sono in parte attribuibili all’aumento dei tamponi effettuati fra persone più esposte (gli operatori sanitari, gli ospiti di residenze per anziani e case di riposo, i detenuti negli istituti penitenziari), ma potrebbero dipendere anche dalla ridotta efficacia delle misure adottate finora. Una questione su cui torneremo più avanti.
Come stanno le cose, dunque?
Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, la virologa Ilaria Capua spiegava: “Sono tante, tantissime le cose che non sappiamo e su cui molti si interrogano e purtroppo la scienza ha tempi lunghi, lunghissimi per arrivare alle sue certezze relative. Un mare di incertezza ci avvolge e ci disorienta. Non sappiamo neanche quanto l’infezione abbia circolato e si sia diffusa in Italia perché i campionamenti non sono rappresentativi e le procedure non armonizzate. Quindi ogni stima è soltanto una stima e come tale intrinsecamente sbagliata, bisogna solo capire di quanto”. Considerazioni tanto più valide non solo perché, come abbiamo visto, c’è una oggettiva difficoltà nel sistematizzare i dati in nostro possesso, quanto soprattutto poiché è certo che la diffusione del contagio sia di molte grandezze maggiore, a causa della presenza di asintomatici e paucisintomaci, nonché di malati che sfuggono alla rete di tracciamento e diagnostica. Anche i dati sui morti sono per larga parte inaffidabili, come vi abbiamo spiegato nel dettaglio qui, in particolare in Lombardia e un po’ ovunque nelle RSA.
Gli elementi di analisi più affidabili restano quelli dei ricoveri in ospedale e del ricorso alle terapie intensive, un termometro della situazione e della tenuta dell’intero sistema sanitario (che peraltro dipende in misura non lineare dal numero dei contagi). GIMBE ha riepilogato i dati settimanali in questi due grafici, il primo relativo ai ricoverati in terapia intensiva (picco in valori assoluti a cavallo tra marzo e aprile):
Il secondo relativo ai ricoverati con sintomi (picco in valori assoluti nella prima settimana di aprile):
Nel complesso, dunque, si riscontra un'inversione di tendenza, con una decrescita generalizzata, anche se probabilmente meno rapida e consistente del previsto (a differenza di quanto visto in Cina, ad esempio). Come ha spiegato Brusaferro, però, bisogna sempre ricordare che fin dall'inizio abbiamo avuto a che fare con situazioni diverse da territorio a territorio: storie diverse, evoluzioni diverse che si mantengono tali, come mostrano i dati scorporati per Regione pubblicati dall'ISS.
Siamo pronti per la fase due, quindi?
No, o meglio, andiamoci piano. Prima di tutto occorre chiarire un concetto non di poca importanza: quello del “raggiungimento del picco”. Come ha spiegato Rezza, nel caso dei contagi si tratta di un picco raggiunto artificiosamente grazie al lockdown, non a causa di un rallentamento epidemiologico. Peraltro, vanno considerati altri elementi, come notato da Maria Rosaria Gualano (UniTo) e MicheleTizzoni (ISI Foundation) su YouTrend: in primo luogo l’aspetto geografico, che “riveste un ruolo importante, e il picco epidemico si può osservare in momenti diversi in diverse località, anche all’interno dello stesso Paese: date diverse di inizio dell’epidemia e diverse politiche di intervento possono modificare la traiettoria epidemica a livello locale”; in secondo luogo quello temporale, visto che le tempistiche “con cui si susseguono le ondate epidemiche dipendono da molti fattori, come per esempio la stagionalità del virus e le misure di intervento adottate”.
Tradotto in parole povere, bisogna avere la consapevolezza che il lockdown ha limitato la circolazione del virus in molte aree del Paese, ma non ha ovviamente determinato la fine dell’epidemia. Dunque, allentare le misure di contenimento potrebbe determinare la recrudescenza dei focolai o la nascita di altri, magari in zone del Paese toccate solo marginalmente dalla prima ondata. È per questo che ogni discorso sulla riapertura deve essere subordinato a una condizione essenziale: bisogna continuare a limitare la circolazione del virus. Un obiettivo da perseguire attraverso il mantenimento delle misure di distanziamento sociale e delle pratiche di igiene individuale (lavaggio frequente delle mani, utilizzo dei guanti e delle mascherine), ma non solo. Il sistema dovrà essere in grado di operare un più efficace controllo del territorio in modo da identificare in maniera rapida e più efficace gli eventuali focolai, mettendo in campo proprio quei criteri e quelle indagini epidemiologiche saltate completamente in alcune zone d’Italia nelle prime fasi dell’epidemia. Le tre T dell’OMS (trace, test and treat) dovranno essere implementate in particolare per quel che concerne la fase di tracciamento dei contatti dei contagiati (anche attraverso l'uso della tecnologia) e dell’isolamento dei sintomatici, possibilmente all’esterno dei nuclei familiari (al momento, come vi abbiamo mostrato nella nostra inchiesta, siamo praticamente a zero). Nel frattempo, andrà monitorato costantemente lo sviluppo dell’epidemia sul territorio nazionale, con un'estensione capillare della capacità di indagine (a breve dovrebbe esserci il via libera a un’ampia gamma di test sierologici). Al riguardo, ci sono diverse proposte, alcune direttamente collegate al piano di riapertura delle attività produttive e dei luoghi di lavoro, come quella di Alleva e Zuliani: una “analisi statistica che consenta di quantificare (attraverso test randomizzati) il grado di presenza del contagio per aree geografiche e categorie di soggetti”. Infine, dovrà proseguire il rafforzamento della capacità di intervento del sistema sanitario, anche nelle Regioni ancora non colpite in modo sensibile dal Covid-19 (se necessario anche ricorrendo ai fondi strutturali europei, ora utilizzabili).
Si tratta di azioni necessarie, anche in considerazione di una triste verità: al momento, non abbiamo la minima idea del perché ci sia un numero ancora alto di contagi, del perché non ci sia stata una brusca frenata nel numero dei morti e del perché non si stabilizzi il rapporto tra tamponi e ospedalizzati. Non sono questioni di poco conto, ma risposte che dovremmo ottenere prima di poter anche solo immaginare di passare alla fase 2. È importante capire, infatti, se questi numeri dipendano solo ed esclusivamente dal maggior numero di tamponi tra persone più esposte, oppure se sia necessario considerare altri fattori e se le norme adottate finora abbiano funzionato. Per esempio, bisogna capire se i luoghi di lavoro siano ancora primarie fonti di contagio, se le aziende e le attività aperte al pubblico siano riuscite a implementare le adeguate misure di sicurezza per i lavoratori e per i cittadini che le frequentano. Soprattutto, è necessario impedire che i luoghi di cura diventino focolai (come purtroppo ancora avviene), limitando i contagi tra il personale ospedaliero e quello che opera nelle RSA, nei centri per disabili o nell’assistenza domiciliare.
C'è tanto da fare, prima della fase due. Restare chiusi in casa e aspettare non basta.