I tanti vertici e le interlocuzioni successive alle elezioni europee hanno certificato l’esistenza di due linee di pensiero distinte. Da una parte ci sono leader che credono che i cittadini europei abbiano espresso una volontà chiara e dunque non sia pensabile che le cose possano andare avanti come se nulla fosse. Dall’altra, chi, numeri alla mano, è portato a ridimensionare il successo delle formazioni di destra, immaginando anzi che questa possa essere l’occasione per l’istituzione di un cordone sanitario – costituzionale. È stata quest'ultima la strategia che ha guidato la riproposizione di uno schema collaudato, quello della coalizione fra popolari, socialisti e liberali, con il supporto condizionato di formazioni minori e non allineate, e che ha portato alla rielezione di von der Leyen e all'emarginazione delle formazioni di destra.
In questo contesto, non sfuggirà che la posizione di Giorgia Meloni è peculiare. La leader di ECR aveva ben altre ambizioni alla vigilia delle Europee, anche sapendo di portare in dote al suo gruppo una numerosa pattuglia di europarlamentari, grazie allo straordinario risultato di Fdi in Italia. Cambiare gli equilibri europei, il sogno. Incidere sull'agenda politica della nuova Commissione, la certezza. In poche settimane, invece, si è ritrovata esclusa dalla partita delle nomine, ha visto nascere e crescere i Patrioti ed è stata considerata poco più che una specie di cuscinetto a destra, ovvero l'ultimo interlocutore "accettabile". Neanche sulla piattaforma programmatica di von der Leyen, peraltro, ha avuto chissà che impatto, stante la necessità della Presidente di non rompere con i Verdi e con le altre formazioni di sinistra che le hanno garantito la rielezione.
Insomma, che Meloni sia uscita sconfitta da tale fase è indubbio, ma il voto contrario di Fratelli d'Italia è stato più una presa d'atto del fallimento di un percorso, che una reale dichiarazione d'intenti per il futuro. Perché il punto è semplice: la presidente del Consiglio, che aveva impostato un percorso di restyling negli ultimi anni per essere considerata interlocutrice credibile soprattutto dai Popolari europei, non vuole e non può approfondire il solco che si è creato in queste settimane. Nè, del resto, è ciò che vuole la von der Leyen, che è consapevole di come gli equilibri e le maggioranze vadano costruire sui singoli dossier, oltre che del fatto che appare impensabile che l'Europa regga le tante sollecitazioni esterne e interne senza il pieno sostegno di uno dei Paesi più ricchi e influenti. Le due leader, che avevano trovato una certa affinità negli ultimi mesi, sanno che le loro strade dovranno necessariamente incrociarsi e che l'interesse a una rapida ricomposizione dei rapporti è reciproco.
Il punto è che la presidente del Consiglio deve gestire una situazione decisamente complicata, stretta com'è fra Tajani e Salvini. Lei non è a Chigi per rappresentare il punto di equilibrio fra pontieri e falchi, ma per determinare l'azione politica del Paese e, come detto, per influenzare quella europea. Non può accettare di vedersi scavalcata a destra dalla Lega, con Salvini che ha già riprogrammato la propria piattaforma politica sulla linea della contestazione antieuropeista, incurante delle ripercussioni sull'intero governo. Non può sopportare di aver bisogno di Tajani come filtro per le interlocuzioni con il Ppe, né della mediazione di Forza Italia sulle partite politiche che verranno. Ha la necessità di trovare un nuovo equilibrio e di riprendere in mano le redini dell'azione politica, rimettendo a posto gli alleati baldanzosi in Italia e cercando di ottenere qualche vittoria – spot in Europa. Per ora, sul versante europeo, invece, non le restano che gli equilibrismi e le frasi vuote, come quella affidata a Tempi: “Non ha alcun senso perseverare, come vorrebbe qualcuno, con quell’approccio autoreferenziale, e fallimentare, che ha trasformato in questi decenni l’Unione Europea in un gigante burocratico che regolamenta ogni segmento della vita dei cittadini ma che poi è incapace di far sentire la propria voce e il proprio peso sullo scenario globale”. Che tradotto significa poco o nulla, ecco. Al ritorno dal proficuo viaggio in Cina (che le ha consentito di sistemare alcune questioni rimaste in sospeso) e dopo la piccola pausa agostana, toccherà ricalibrare una nuova strategia.
Più facile a dirsi che a farsi. Anzi, più facile prendersela coi giornali che a farsi.
Solo in questo contesto di estrema difficoltà è comprensibile la risposta di Giorgia Meloni alle (piuttosto garbate e leggere) eccezioni delle autorità europee sullo stato di diritto in Italia. Una lettera strana, non solo perché costruita secondo il solito schema vittimista, ma per la dose di aggressività rivolta più a terzi che ai reali destinatari della lettera. Un intervento volutamente confusionario (in cui vengono sovrapposti tre diversi report, non tutti riconducibili alla UE), che però è la conferma di una sensazione diffusa: la linea durissima nei confronti della stampa non allineata è il principale diversivo che Meloni e i suoi utilizzeranno anche nei prossimi mesi, quando i nodi verranno al pettine ed emergeranno tutte le contraddizioni di una maggioranza che è contemporaneamente europeista, antieuropeista, sovranista, atlantista, trumpiana e con qualche nostalgia per il Putin di una volta. "Non siamo così, sono loro che ci raccontano così", insomma.