Ieri, due naufragi. Tantissime le vittime. Quante? Non lo sappiamo, perché li chiamiamo "dispersi" fino a quando non vediamo i corpi, come se affogare in mare fosse come essere andati a fare la spesa, come se potessero riemergere da un'apnea di 24 ore e dire: "Ehi, ci eravamo fermati a giocare con un'aragosta, dove eravamo rimasti?"
Due naufragi, ieri, e dunque due tragedie. Cosicché oggi non so neanche da quale partire, per addolorarmi con sincerità. Per ritenermi nel giusto almeno un po'. Per pensare di non far parte di chi buca loro il gommone, o di chi non fa abbastanza.
Che poi, dai, due tragedie insieme finiscono per togliersi la visibilità del lutto, questi immigrati non potevano affogare con un occhio alla mediaticità della notizia? Sarebbero dovuti affogare uno per uno, queste sono le basi, un po' di social marketing a scuola non l'hanno fatto?
Io scherzo, non su di loro ma su come è facile assopire le nostre coscenze, quando almeno ci sono. Però è davvero così, anche quando non vorremmo: un morto è tanto, due morti sono tantissimi, tre pure. Ma dal quarto in poi è statistica, ed è una fatica resisterle.
Se poi muoiono in due porzioni di mare diverse, di quale tragedia io oggi parlo per prima? I dieci morti a Lampedusa, partiti dalla Libia, oppure i 66 dispersi in Calabria partiti dalla Turchia, con 26 bambini che non si trovano più?
E poi, qui torno serio: quali parole uso per raccontare i fatti, prendere una posizione umana prima che politica, puntare all'emozione ma non troppo altrimenti è un brutto programma già visto?
La parola "sventura" no, non posso usarla. Sembra riduttivo, come aver perso il cellulare sulla sabbia, e poi magari averlo ritrovato.
"Calamità" sembra una cosa naturale.
"Catastrofe", ma per chi? Mica per tutti. C'è chi gode alla notizia, e sono i cameratini amici di quelli che dicono "noi non possiamo farci niente", e poi però – nel non poterci fare niente – promulgano una legge che multa le ONG che effettuano due salvataggi durante la stessa missione, invece che uno soltanto: una multa pari a 10.000 euro.
Sempre a proposito di parole: posso utilizzare "tragedia", ovvio perché non è una "commedia". Però le tragedie ripetute somigliano tanto all'omicidio colposo. Non dico volontario, non mi azzardo nel preterintenzionale, ma la colpa se non il dolo, almeno quella, vogliamo darla a chi complica i salvataggi? Oppure non sapevamo che rendere la vita difficilissima alle ONG in mare, avrebbe portato alla moltiplicazione delle tragedie?
Poi lo so anch'io, certo, come funziona l'ordinamento giuridico. E dunque non è colpa di chi fa le leggi, ma è colpa di chi parte. Ricordo le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni ai sopravvissuti di Cutro: "Eravate consapevoli dei rischi legati alle traversate del Mediterraneo?”
Come dire: se parti, è colpa tua. Oppure: se indossi la minigonna la tragedia l'attiri, o addirittura la provochi.
I morti in mare non sono una casualità, ma il risultato di scelte politiche. Dobbiamo aprire canali di accesso legali e sicuri, quelli che si chiamano "corridoi umanitari". Perché una famiglia che fugge dal regime talebano in Afghanistan (nella prima nave naufragata ieri, quella partita dalla Turchia, c'erano anche loro), deve rischiare la vita in mare? Perché non dovrebbero avere accesso all'Europa, perché quelle persone sono costrette ad affidarsi a trafficanti e taglieggiatori, per cercare una salvezza?
Perché chi sopravvive a tutto prima, finisce poi a morire in una stiva, per mancanza di aria? Dieci persone, ieri, sono morte così: l'ossigeno nell'aria si era abbassato sotto il 7%. Avviene spesso, chiusi in stiva.
Chi soccorre è come un'ambulanza però in mare, senza ruote ma con una prua, una poppa, una coperta e un pozzetto. Così sono fatte le navi delle ONG, che avrebbero bisogno di un riconoscimento europeo, e non di aggressioni pecuniarie e mediatiche.
Non è una cosa personale, questo è un fatto che ha a che fare con parole di uso troppo comune, come tragedia, naufragio, 26 bambini, dispersi e naufragio, di nuovo. Tragedia. Naufragio, tragedia. E via così.