È pur vero che siamo abituati a quasi tutto, ma è difficile considerare “normale” ciò che sta avvenendo in questi giorni. Al centro del dibattito politico le dichiarazioni al Corriere della Sera del ministro della Difesa Crosetto. Parole che, inutile girarci intorno, rimandavano a una presunta attività eversiva di esponenti della magistratura. Il co-fondatore di Fratelli d’Italia, infatti, aveva lasciato intendere di avere informazioni su magistrati che si starebbero organizzando per sovvertire l’ordine democratico, colpendo il governo di Giorgia Meloni per mezzo di inchieste costruite ad arte.
Dichiarazioni di enorme peso e gravità, che giustamente avevano sollevato un polverone e alimentato reazioni durissime da parte di politici e magistrati. Dal Quirinale poco o nulla, ma immaginiamo quanto possa essere stato felice Mattarella di un'uscita del genere. I magistrati, come prevedibile, non l’avevano presa benissimo. Eugenio Albamonte, ex segretario di Area (la corrente più volte “attenzionata” dalla maggioranza di centrodestra), ha parlato di “più di una somiglianza” con paesi come Ungheria, Turchia e Polonia, in cui la magistratura viene marginalizzata e osteggiata dal governo. I segnali di uno scontro sotterraneo, del resto, c'erano già tutti: basti solo guardare allo stillicidio di proposte, intenzioni o dichiarazioni d'intenti sulla riforma della magistratura, dai test psicoattitudinali alle pagelle ai magistrati (la delega è un'eredità del governo Draghi, ma i decreti per attuarla non sono ancora pronti), passando per l'ennesimo intervento sulla responsabilità civile.
Tutto, insomma, lasciava intendere che ci potessero essere conseguenze importanti. Qualcuno aveva immaginato che Crosetto avesse gettato la testa di ponte dalla quale la maggioranza si sarebbe lanciata per accelerare sulla riforma della Giustizia. Altri ipotizzavano che Nordio potesse in qualche modo sfruttare l’attenzione mediatica per svegliarsi dal torpore e recuperare quella centralità nel governo persa negli ultimi mesi. Tutti, più o meno, sposavano la tesi del fuoco di sbarramento preventivo: ovvero, ipotizzavano che Crosetto fosse a conoscenza dell’arrivo di inchieste più o meno pericolose per la maggioranza e volesse cominciare a costruire la narrazione del “complotto in vista delle Europee”.
Invece, la questione si è lentamente sgonfiata, con Crosetto che prima ha in qualche modo confermato le accuse, poi ha ridimensionato la polemica, infine chiamato Santalucia dell'ANM. Forse se ne parlerà il prossimo mercoledì, quando il ministro della Difesa sarà in Parlamento per degli interventi programmati (su tutt'altro argomento). Anche perché, per quanto giornali e commentatori di area abbiano scavato, non è emerso nulla di clamoroso: qualche riunione di Area, addirittura a porte aperte, da cui estrapolare qualche passaggio più o meno critico col governo; o addirittura qualche "invito mancato" a un congresso o un evento pubblico. Resta la figura non memorabile del ministro, che intanto ha gettato ulteriore veleno nelle discussioni già inquinate sul rapporto con il governo Meloni e sull'operato della magistratura. Ma insomma, tutti i segnali fanno pensare a una tregua, al netto di qualche passaggio strano del ministro Nordio (che rilancia i "sospetti", anche lui senza specificare).
I soliti retroscena lasciano intendere che a suggerire, eufemismo, di alzare il piede dall'acceleratore sia stata la presidente del Consiglio. In ossequio alla narrazione Meloni aggiustatutto, avrebbe chiesto ai suoi fedelissimi un'attenzione maggiore, in una fase politica cruciale per il futuro dell'esperimento in corso. Detto brutalmente: la leader di Fdi è impegnata su più fronti e non ha alcuna intenzione di aprire il dossier sulla giustizia, almeno non in questi termini e tempi. Dopo aver ottenuto senza scossoni la mini-revisione del Pnrr e incassato il giudizio positivo dalle agenzie di rating, vuole chiudere piuttosto sbrigativamente la partita della manovra economica per concentrarsi su quello che ritiene essere lo snodo cruciale della prima parte della legislatura: la riforma costituzionale. Portarla a casa, al di là dei proclami altisonanti dei falchi della maggioranza, non sarà affatto facile e la presidente del Consiglio lo sa bene.
Meloni non ha dimenticato quanto accaduto a Matteo Renzi, il quale, prima di imbarcarsi nell’avventura della riforma costituzionale e andare incontro al naufragio del referendum, era in una situazione non molto dissimile dalla sua: maggioranza solida (o comunque senza alternative concrete), altissimo consenso nel Paese, percorso delle riforme avviato e conti in sicurezza. A determinare il flop renziano fu la coalizzazione di un fronte molto ampio e variegato, composto non solo dalla quasi totalità delle forze di opposizione, ma anche da tanti attori sociali e del mondo produttivo. Renzi andò all in potendo contare solo sulle proprie carte, Meloni non può permettersi di ripetere lo stesso schema. Certo, finora la comunicazione vittimista ha sempre funzionato, ma più come risposta ad attacchi esterni (presunti o reali) che in chiave costruttiva. L'idea che si possa riformare la Carta e cambiare le regole del gioco mentre il Paese è in fiamme è suggestiva, ma del tutto inapplicabile. Così come la sensazione che stia cambiando velocemente il quadro che vede la maggioranza compatta e l'opposizione divisa e litigiosa.
È per questo che Meloni non può dare alle opposizioni ulteriori elementi per compattarsi, conscia di aver gestito molto male già il dossier “lavoro” (anche se può ancora far pesare i numeri dell’occupazione) e consapevole di doversi preoccupare anche delle difficoltà della maggioranza. In attesa della prossima "gaffe" di un ministro o un sottosegretario, ovviamente.