Il femminicidio di Giulia Tramontano è uno di quei casi che, per la sua crudeltà, riesce a bucare la conta delle donne uccise dai propri partner e a toccare qualcosa di profondo nell’opinione pubblica. Tanto che anche il governo si è sentito in dovere di intervenire e annunciare misure straordinarie, per un fenomeno che però è ormai diventato tristemente ordinario. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha infatti illustrato il piano dell’esecutivo sulla violenza di genere, un decreto che dovrebbe unirsi anche a un disegno di legge che prevede “un rafforzamento delle misure di prevenzione personali”. Tra gli strumenti citati dal ministro ci sono campagne di informazione sulla presenza dei centri antiviolenza, gli ammonimenti del giudice, ma soprattutto il braccialetto elettronico, per il cui utilizzo l’autorità giudiziaria deve decidere “l’adozione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nei confronti dei soggetti indiziati di delitti, consumati o tentati, nell’ambito della violenza di genere e domestica”.
Sebbene il ministro abbia più volte sottolineato che la violenza di genere sia anche un fenomeno culturale e che le misure di sicurezza non bastino, ancora una volta il governo adotta misure emergenziali e securitarie per un fenomeno strutturale, per altro ignorando il lavoro svolto negli anni passati per far sì che non si pensi a delle soluzioni solo in seguito a casi eclatanti come quello di Giulia Tramontano, ma diventino una strategia antiviolenza consolidata. Uno di questi strumenti era la commissione d’inchiesta sul femminicidio, istituita nel 2018 e presieduta da allora dalla senatrice Valeria Valente. Il lavoro di questa commissione è stato prezioso in passato perché è riuscito a monitorare con precisione tutti gli aspetti che riguardano il fenomeno della violenza di genere, dall’attuazione della Convenzione di Istanbul, alla mappatura dei centri antiviolenza fino alle relazioni sul sistema giudiziario.
Con l’insediamento del nuovo governo a ottobre del 2022, la commissione d’inchiesta ha interrotto i lavori e, nonostante a gennaio entrambe le camere ne abbiano votato all’unanimità l’istituzione di una nuova, stavolta bicamerale, la commissione non si è ancora insediata. Ora il timore è che tutto il lavoro fatto finora, che aveva prodotto importanti raccomandazioni, vada perso. “Prima ancora di chiederci che fine abbia fatto la nuova commissione”, ha dichiarato la presidente della rete dei centri antiviolenza D.i.Re Antonella Veltri, “ci domandiamo come e quando verranno prese in considerazione quelle raccomandazioni. Un lavoro importante di indagine e studi che ancora non ha prodotto interventi politici conseguenti”. Lo stretto monitoraggio del fenomeno della violenza di genere, tra l’altro, è uno degli obblighi imposti dalla Convenzione di Istanbul, che l’Italia ha ratificato nel 2013 e che è giuridicamente vincolante.
Come sottolinea anche la relazione della Commissione femminicidi sul sistema giudiziario, il problema del nostro Paese non è l’assenza di leggi o di misure di contrasto al fenomeno. Anzi, l’Italia in questo senso ha uno degli apparati normativi più avanzati in Europa, ma il problema è soprattutto di tipo applicativo: non solo le forze dell’ordine non sono formate per affrontare la specificità di una situazione di violenza di genere, ma anche nelle aule di tribunale non sono rari fenomeni di vittimizzazione secondaria, in cui si attribuiscono le colpe ai comportamenti della vittima anziché a chi ha commesso la violenza.
Questa enorme quantità di norme, leggi e inasprimenti di pene infatti non solo “non ha dimostrato di avere l’efficacia deterrente auspicata”, ma ha anche distolto l’attenzione da tutti i fenomeni “di contorno” legati alla violenza di genere: la prevenzione, l’educazione nelle scuole, il finanziamento dei centri antiviolenza, i programmi per gli uomini maltrattanti. Tutti aspetti che non hanno il vantaggio politico di prestarsi alla retorica trionfalistica e securitaria che tanto piace adottare ai governi (a prescindere dall’appartenenza politica) quando si parla di violenza sulle donne. È facile annunciare nuove “misure” che vanno ad aggiungersi al già lungo elenco di articoli nel codice di procedura penale, è facile pensare che basti “informare le donne” o spingerle (se non obbligarle) a denunciare i propri aggressori; meno facile rifarsi ai principi espressi nel preambolo della Convenzione di Istanbul: ovvero che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”.
La protezione delle donne è solo uno dei tanti aspetti del contrasto alla violenza di genere e purtroppo né l’introduzione di nuovi reati e aggravanti, né l’aumento delle pene, né la creazione del Codice rosso in questi anni sono riusciti a fermare i femminicidi, che anzi sono aumentati. Sarebbe ora di guardare altrove, come suggeriscono da anni associazioni, commissioni, centri antiviolenza, esperti del fenomeno. Il problema è che la direzione in cui si deve guardare non piace a questo governo, i cui esponenti al Parlamento europeo non a caso hanno votato contro l’adozione della Convenzione di Istanbul: mettere mano alla cultura maschilista, al modello di famiglia, all’educazione sessuale, all’autonomia decisionale e incondizionata delle donne. Tutte cose che per cui non basta un decreto e una manciata di belle parole.