Durante la sua visita al Salone del mobile di Milano, la premier Giorgia Meloni ha parlato del problema del lavoro. In particolare ha detto che “il modo sul quale lavora il governo non è risolverlo coi migranti, ma risolverlo con quella grande riserva inutilizzata che è il lavoro femminile. Alzando i livelli del lavoro femminile e portandoli alla media europea già i nostri dati cambierebbero molto. E lavorando sulla demografia e quindi sull’incentivazione della possibilità da parte delle famiglie di mettere al mondo dei figli”.
È vero. In Italia c’è un enorme problema di occupazione femminile. Il tasso di occupazione per le donne è del 52%, in leggera crescita, ma comunque all’ultimo posto in Europa. In 22 su 27 Paesi europei, le donne con 3 figli hanno tassi di occupazione superiori a quelle italiane con un solo figlio. Il problema si trascina da tanto tempo: guardando i dati dell’Istituto europeo per la parità di genere, anche se l’Italia ha migliorato il proprio punteggio in alcuni campi come quello della rappresentanza politica, i punteggi del lavoro restano fermi a dieci anni fa.
È anche vero che l’occupazione femminile è direttamente connessa alla natalità. Come scrive la demografa Alessandra Minello nel suo libro Non è un Paese per madri, c’è una distanza tra i figli desiderati e i figli avuti: il numero di figli per donna è attualmente inferiore a 1,3, ma oltre la metà degli italiani vorrebbe avere due figli e quasi un quarto anche tre o più. Il 41% di chi ha già un figlio ne vorrebbe un altro. Questo fertility gap è dovuto proprio all’impossibilità di soddisfare i propri desideri di maternità e di genitorialità, soprattutto a causa della realtà lavorativa.
Colpa dei migranti? Colpa della “sostituzione etnica”, per citare il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida che ha tirato fuori un’espressione razzista e suprematista che non dovrebbe avere spazio nel lessico democratico di un rappresentante dello Stato? Ovviamente no. La colpa è dell’assenza di politiche di genere mirate non soltanto alla maternità e all’occupazione, ma a una maternità libera e a un’occupazione dignitosa, che non abbiano come fine ultimo dare figli alla patria, ma soddisfare progetti di vita e bene comune.
Contrapporre donne e migranti sul tema lavoro a pensare “bene” è miopia politica, a pensare male è soffiare sul fuoco dell’odio sociale. Le due questioni possono naturalmente intrecciarsi, specie se si parla della difficile situazione delle migranti che lavorano nel nostro Paese e la cui permanenza dipende proprio da un contratto di lavoro regolare e da un reddito dignitoso, ma dire che il problema dell’occupazione si risolve con quella femminile e non con quella di chi emigra sottintende che questi ultimi stiano in qualche modo sottraendo il lavoro alle donne. Una retorica allarmista, ma soprattutto falsa, perché i motivi per cui le donne non lavorano sono noti da tempo e riguardano il welfare sociale, la conciliazione tra vita e lavoro, le discriminazioni di genere, il gender pay gap e l’assenza dei servizi per l’infanzia.
Tutte cose su cui il governo si è spesso detto pronto a impegnarsi, ma su cui finora non ha fatto molto, oltre ad aumentare l’indennità del congedo parentale dal 30 all’80% per un mese con l’ultima legge di bilancio. Gli sgravi fiscali previsti per l’assunzione delle donne, poi, non solo riguardano una platea ristretta di persone (over 50 e lavori sottorappresentati), ma gli effetti positivi non sono stati in passato così incisivi da far ritenere questa misura sufficiente per risolvere il problema dell’occupazione femminile. Gli sgravi interessano i contratti a lungo termine, ma poi quel lavoro va mantenuto grazie all’esistenza di una rete di servizi che al momento mancano. Della stessa linea è l’assegno unico e universale per i figli, uno strumento sicuramente di aiuto ma che, come scrive l’analisi di InGenere, “rafforza la convinzione che la natalità si incentiva dando soldi, non servizi”.
Non è colpa di chi scappa dalle guerre, dalla miseria e dalla fame se in Italia il congedo di paternità dura dieci giorni, se soltanto poco più di un quarto dei bambini trova posto negli asili nido e se alla scadenza del bando del Pnrr era arrivata soltanto metà delle richieste per costruirne di nuovi. Non è colpa di chi parte alla ricerca di un futuro migliore se l’unica funzione delle donne per il governo è quella di essere madri; eppure non è che le donne senza figli se la passino tanto meglio dal punto di vista lavorativo: in questo caso siamo i penultimi e non gli ultimi in Europa, e comunque con un tasso di occupazione ancora troppo basso.
Donne e migranti non sono due gruppi alternativi o in competizione fra loro per spartirsi la piccola torta del lavoro in Italia. E soprattutto né donne né migranti sono importanti solo se servono a qualcosa: i primi a contribuire al Pil del Paese, le seconde a fare figli. Entrambi, a tornare utili alla propaganda politica che tra teorie del complotto neonaziste e mammismo continua a nascondere sotto il tappeto la propria incompetenza.