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Non c’è una sola ragione per lasciare degli esseri umani in mare: cosa dice il diritto internazionale

Non c’è assolutamente alcuna ragione per lasciare delle persone in mare: ecco cosa dice di preciso il diritto del mare e la normativa internazionale.
A cura di Annalisa Girardi
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Alla fine tutti i migranti a bordo della Geo Barents e della Humanity 1 sono potuti sbarcare a terra, dopo giorni di stallo e inutile stress fisico e psicologico di centinaia di naufraghi. E anche se ha dovuto cedere, il governo ha iniziato un vero e proprio braccio di ferro con le Ong sulla pelle delle persone che attraversano il Mediterraneo. In questi giorni non sono mancati gli appelli al rispetto del diritto del mare. In realtà, alla normativa internazionale ha fatto riferimento anche il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi spiegando la sua strategia sui flussi migratori, che consiste nel permettere alle navi umanitarie di attraccare ai porti italiani esclusivamente per il tempo necessario a stabilire chi possa sbarcare (fragili, donne e minori, una vera e propria "selezione umana"), mentre gli altri dovrebbero ripartire subito dopo, abbandonando le acque territoriali italiane. Questo perché, secondo il titolare del Viminale, spetterebbe allo Stato di bandiera della nave che ha effettuato il soccorso occuparsi delle operazioni di prima accoglienza. Non a quello geograficamente più vicino.

Ma quindi, che cosa dice esattamente il diritto del mare?

Le convenzioni e i trattati sul diritto del mare e sui rifugiati

I riferimenti, quando si parla genericamente di diritto del mare o di norme internazionali, sono le convenzioni internazionali che regolano diversi aspetti dell'universo marittimo. Tra cui, appunto, quello del soccorso a chi si trova in pericolo. Queste sono:

Inoltre, parlando di migrazioni, bisogna considerare anche i trattati che definiscono chi sono i rifugiati e quali sono le regole da seguire per fare richiesta di protezione internazionale. Nello specifico:

Cosa dice la normativa internazionale sul soccorso in mare

Questi sono i documenti che definiscono il perimetro entro cui muoversi quando si parla delle leggi internazionali sul mare. Ma cosa affermano, di preciso?

La Convenzione di Amburgo afferma l'obbligo di prestare soccorso a chiunque si trovi in pericolo di vita in mare, intervenendo quanto più velocemente possibile. Le persone salvate, quindi, devono essere portate nel primo porto sicuro disponibile. Il place of safety non va individuato solamente guardando alle coordinate geografiche: alle persone soccorse deve essere anche garantito il rispetto dei diritti umani in quel luogo e deve essere loro assicurata la possibilità di fare richiesta di asilo.

Anche la Convenzione Solas stabilisce che il comandante di qualsiasi nave abbia il dovere di assistere quanto più rapidamente possibile le persone in difficoltà in mare; agli Stati (quindi, concretamente, ai governi e ai centri di coordinamento del soccorso) questo documento impone invece di garantire tutti gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e le richieste di soccorso. Nella propria area di responsabilità, inoltre, gli Stati devono assumere il coordinamento delle operazioni.

La delimitazione di quest'area, al di là delle acque territoriali, è sancito dalla Convenzione Sar. Entro questo perimetro i governi devono garantire assistenza alle persone che si trovano in pericolo, indipendentemente dalla loro nazionalità o dalle circostanze in cui vengono trovate, e trasferirle in un luogo sicuro.

Il place of safety

Negli ultimi anni, dalla fine delle operazioni europee nate per rispondere alla crisi migratoria tra il 2011 e il 2013, nelle zone di ricerca e soccorso si trovano quasi esclusivamente navi civili. Nelle zone Sar, appunto, dove vengono effettuate gran parte delle operazioni di salvataggio, non si vedono più le navi della Marina italiana o maltese, le due principali interessate, nonostante la Convenzione di Amburgo obblighi esplicitamente gli Stati a mantenere attivo un servizio di ricerca e soccorso e a cooperare con i Paesi limitrofi.

Le navi delle Ong sono così le sole di pattuglia lungo le rotte migratorie del Mediterraneo. Con gli Stati costieri non più direttamente coinvolti, spesso le autorità si rifiutano di fornire un porto sicuro di sbarco a una nave umanitaria battente bandiera di un Paese terzo che si trova in acque internazionali, o comunque al di fuori della propria zona Sar. E così si arriva a giorni e giorni di stallo in mare.

Chiaramente questa è una violazione del diritto del mare. Assicurare un porto sicuro di sbarco è un obbligo sancito dal diritto internazionale. Questo, per definizione, deve essere il luogo in cui la sicurezza e la vita dei sopravvissuti non sia più messa in pericolo e dove le necessità umane primarie possano essere soddisfate. La nave che presta soccorso, anche se può temporaneamente occuparsi di garantire entrambi questi aspetti, non dovrebbe farsene carico a lungo.

Alle Convenzioni Solas e Sar sono stati recentemente approvati degli emendamenti proprio per garantire che la responsabilità delle persone soccorse non ricada interamente sul comandante della nave, ma sia assunta dagli Stati. Sono i governi, infatti, a doversi occupare di coordinare le operazioni di soccorso in modo da assicurare lo sbarco dei naufraghi quanto prima.

Lo sbarco, gli obblighi del comandante della nave e quelli dei governi

Le operazioni di soccorso non possono considerarsi concluse fino a quando tutte le persone soccorse non siano sulla terraferma. Secondo la linea del governo spetterebbe agli Stati di bandiera delle navi umanitarie che effettuano i salvataggi offrire il porto sicuro. Ad esempio la Norvegia, se si sta parlando della Geo Barents, oppure la Germania per la Sea Watch 3. Come abbiamo visto, però, le Convenzioni internazionali, impongono di portare a termine i soccorsi nel più breve tempo possibile. E ovvie ragioni geografiche, quindi, vogliono che il porto sicuro di sbarco sia spesso individuato in Sicilia o lungo le coste del Sud Italia.

Una volta sbarcato nel luogo sicuro, chi lo desidera può fare richiesta di protezione internazionale. Il regolamento di Dublino, una Convenzione stretta dagli Stati dell'Unione europea, vuole infatti che la domanda di asilo sia fatta nel Paese di primo approdo. Il governo italiano ha invece chiesto che siano gli Stati di bandiera a occuparsi dell'identificazione e delle richieste di asilo dei naufraghi, mentre questi rimangono a bordo della nave.

Anche questa è una violazione del diritto internazionale. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, pubblicate con gli emendamenti alle Convenzioni Sar e Solas, oltre a precisare che le operazioni per definire lo status dei migranti in merito alle richieste di asilo non sia una responsabilità del comandante, affermano anche che queste vadano comunque evitate nel caso in cui provocherebbero un ritardo dello sbarco.

Inoltre, a meno che non si stia parlando di una nave militare, su cui la legislazione è un po' più complessa, nave battente bandiera tedesca o norvegese non significa prettamente territorio tedesco o norvegese, dove gestire le operazioni di prima accoglienza. Queste devono essere fatte a terra, nel Paese di primo approdo, in cui è necessario sbarcare il prima possibile dopo aver soccorso delle persone in mare.

Quindi no, non si possono mantenere per giorni delle persone a bordo delle navi umanitarie per effettuare identificazioni e altre procedure burocratiche.

Il principio di non respingimento

C'è anche un altro elemento da prendere in considerazione. Queste operazioni richiedono di norma molto tempo, a volte anche mesi o anni. Non si può stabilire in mezz'ora se una persona ha diritto o meno alla protezione internazionale. La Convenzione di Ginevra del 1951 definisce come rifugiato la persona che "temendo a ragione di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadina e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra".

Non solo: all'articolo 33, si stabilisce che il rifugiato non possa essere "espulso o respinto – in alcun modo – verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche". Negare il diritto a presentare domanda di asilo e non valutarla nella giusta maniera, quindi, potrebbe comportare un respingimento collettivo. Un'altra violazione del diritto internazionale.

Il primato del diritto alla vita

Non dovrebbe poi essere necessario precisare che qualsiasi specifica verrà sempre dopo il diritto alla vita e alla dignità umana. Ma vale comunque la pena ricordare due casi in cui organismi internazionali si sono esposti nei confronti del nostro Paese. Come la sentenza Hirsi Jamaa and Others v. Italy, in cui la Corte europea dei Diritti dell'uomo aveva condannato l'Italia per aver riportato in Libia un gruppo di migranti soccorsi da tre navi della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiana in zona Sar maltese. Oppure, ancora, l'opinione del Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti umani sul caso A.S., D.I., O.I. and G.D vs Italy, che ha accusato l'Italia di essere colpevole di mancato soccorso nel naufragio avvenuto nel 2013 in zona Sar maltese, dove oltre 200 persone hanno perso la vita. Tra loro, anche 60 bambini. Nonostante le molteplici richieste di soccorso, una nave della Marina italiana è arrivata troppo tardi. Secondo il Comitato dell'ONU, indipendentemente dal fatto che il naufragio fosse avvenuto in zona Sar maltese, l'Italia aveva de facto il controllo del territorio, avendo ricevuto continue comunicazioni dall'imbarcazione in pericolo.

Infine, il caso di Carola Rackete, come ha ricordato il segretario nazionale dell'Asgi, Dario Belluccio, in un'intervista a Fanpage.it, "discusso e sentenziato dalla Corte di Cassazione italiana, e quindi precedente giuridico prevalente, ci dice che le operazioni di soccorso in mare si concludono solo quando i naufraghi sono sbarcati tutti a terra in un porto sicuro" e "impedire ad una nave con naufraghi a bordo l'attracco in un porto è una violazione delle norme".

Insomma, si potrebbe dirla in modo molto più breve: per nessun motivo, per nessuna scusa o pignoleria giuridica, le persone possono essere lasciate in mare. Punto.

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A Fanpage.it sono vice capoarea della sezione Politica. Mi appassiona scrivere di battaglie di genere e lotta alle diseguaglianze. Dalla redazione romana, provo a raccontare la quotidianità politica di sempre con parole nuove.
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