Non arrendersi alla logica del colonialismo e della guerra è l’unico modo di combattere l’antisemitismo
Di Davide Grasso
La valanga di accuse di antisemitismo che sono arrivate al Senato accademico dell’Università di Torino dopo la recente decisione di non partecipare al bando MAECI sono espressione di una profonda arretratezza nel considerare il mondo di oggi e le sue relazioni internazionali. Il bando prevede la candidatura a ricerche scientifiche che potrebbero prevedere la cooperazione con università israeliane e la possibilità di un “dual-use” dei risultati, ossia il loro impiego anche per scopi militari. A seguito di un appello, che abbiamo firmato in quasi duemila ricercatrici e ricercatori, e nel momento in cui le istituzioni israeliane proseguono il massacro indiscriminato della popolazione palestinese a Gaza, il bando è parso all’Ateneo un rischio di coinvolgimento indiretto in una delle operazioni militari più sanguinarie, inaccettabili e irresponsabili di questo secolo.
Credo sia ora di farla finita con la passività di fronte all’uso strumentale della nozione di antisemitismo, ancor più se accompagnato da un uso cinico e intollerabile della shoà, che promuove una militarizzazione interessata della memoria. Soltanto una mancata conoscenza dell’eredità, della storia e delle realtà culturali ebraiche può permettere di affermare che lo stato d’Israele incarni o rappresenti l’ebraismo in quanto tale, e che l’ideologia sionista, o ancor peggio le attuali politiche di Israele, possano essere identificate con gli ebrei come tali o con l’ebraismo. Come fa notare in un saggio l’antropologa palestinese Ruba Salih, importanti figure della storia nazionale ebraica hanno avversato le teorie sioniste in nome di un diverso sentimento nazionale: è il caso di Marek Edelmann, comandante della resistenza antinazista del ghetto di Varsavia nel 1943, di cui le università israeliane si sono sempre rifiutate di riconoscere i meriti. Edelmann, come molti altri tra le due guerre, apparteneva al Bund, organizzazione ebraica che difendeva un’idea non statale e non coloniale di autodeterminazione nazionale.
La critica ebraica al sionismo è talmente celebre – da intellettuali come Franco Fortini e Hannah Arendt, fino a Ilan Pappe, passando per attivisti come Michail Warschawski e Jeff Halper – da rendere assurda la stessa connessione, quanto meno meccanica, tra dissenso nei confronti del sionismo e antisemitismo. La disinvoltura nell’uso della memoria – e degli stessi nomi delle vittime e dei reduci, cui giustamente sono intitolati spazi e strutture nelle università – mi ha spaventato, in questi giorni, e mi ha sconvolto. Credo sia un punto di non ritorno nella mancanza di rispetto per la sofferenza umana e per la storia. Analogamente alle accuse incrociate di nazismo tra i governi russo e ucraino, l’uso sionista della shoà per giustificare l’occupazione coloniale prodotta da Israele ha, nel tempo, aperto un abisso verso una nuova e diversa banalizzazione del male: non più o non soltanto incapacità di pensare dell’individuo, che non si pone domande sulle politiche del proprio stato (ciò che forse alcuni vorrebbero che noi universitari, infine, diventassimo) ma anche una riduzione dell’innominabile, non di rado accaduto ad altri (ma appropriato nell’astrazione del mito stato-nazionale), a strumento per la legittimazione della violenza indiscriminata, in tutt’altri contesti.
L’ipocrisia dei manipolatori della nozione di antisemitismo è imbarazzante. Giorgia Meloni, che ha surrettiziamente accusato l’Università di Torino di sudditanza a concezioni antisemite, ha in Giorgio Almirante uno dei punti di riferimento di maggior rilievo: un uomo complice diretto delle politiche di assoggettamento dell’Italia alle pratiche tedesche di deportazione nei lager, che riteneva bisognasse proteggere l’Italia «da meticci ed ebrei». Quello che non riesco a spiegarmi è invece come degli ebrei, spesso in buona fede, non si rendano conto che blandire l’evento più grave della storia europea, e della loro storia, per giustificare pratiche coloniali sanzionate dalle più alte istituzioni internazionali non faccia che favorire la propaganda mondiale dei gruppi e dei governi antisemiti. Questi ultimi accumulano forza e consenso additando al mondo il continuo uso strumentale della shoà per legittimare guerra e distruzione; e in questo modo arrivano a negare la realtà e le dimensioni dello sterminio nazista, contrapponendo l’ipocrisia antisemita all’ipocrisia sionista.
L’antisemitismo è oggi molto più diffuso nel mondo che ai tempi di Hitler, e si diffonde tra gli strati popolari di ampie regioni del pianeta grazie alle immagini dell’azione israeliana e delle sue conseguenze. Sebbene abbia tratti comuni con quello di allora – la paranoia e la teoria del complotto giudaico, il banale pregiudizio espresso con la battuta di spirito, l’astio unidirezionale verso presunte azioni o “caratteristiche” ebraiche – è anche diverso, perché si fonda anche sulla distorsione dell’altrimenti giusta denuncia storica della cacciata di milioni di palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, seguita da decenni di occupazione e colonialismo d’insediamento, guerre e repressione continua delle ribellioni popolari, fino alla costruzione del muro e, adesso, alla distruzione di un’intera striscia di territorio, con la sua popolazione sterminata o messa in fuga senza medicinali, ospedali, acqua e viveri.
Anziché mettere questo in relazione con una mentalità coloniale che può albergare in qualsiasi tradizione culturale e in qualsiasi nazione – come in effetti è ed è stato – gli antisemiti cercano di postulare una presunta, speciale malvagità ebraica, al fine di aizzare le giovani generazioni non ebraiche contro gli ebrei. Unica alternativa a queste narrazioni è una critica articolata dell’antisemitismo, che deve accompagnarsi a una critica politica non antisemita, pragmatica e coerente, del colonialismo sionista. Il colonialismo, nel suo complesso – occorre sempre ricordarlo – non ha ucciso meno nel mondo, né uccide meno, dell’antisemitismo. Nessuna argomentazione contro l’antisemitismo sarà efficace, nel mondo che ci attende, se non accompagnata da una presa di distanza coerente e argomentata dall’ideologia e della prassi sionista.
Per questo oggi non è oggi possibile combattere l’antisemitismo e sostenere Israele nello stesso tempo, e occorre invece proporre istituzioni pluraliste e unitarie su tutta la Palestina storica quale unica via d’uscita non antisemita e non sionista dai disastri prodotti da settant’anni di suprematismo ebraico sulle popolazioni locali. La critica non antisemita del sionismo non postula alcuna eccezionalità razziale, culturale o religiosa degli ebrei, decostruendo l’ideologia sionista al pari di altri progetti di ingegneria demografica di stampo coloniale che sono esistiti ed esistono nel mondo. Non considera il colonialismo israeliano la risposta, o una risposta efficace e accettabile, alla catastrofe della shoà – semmai una delle iniziative presentate come risposte, ed una che non ha dato buoni frutti.
Postulare la non eccezionalità dei crimini commessi da un movimento ebraico significa postulare anche la non eccezionalità di Israele di fronte al diritto internazionale e ai principi di giustizia applicati ad altre nazioni e in altre circostanze. Il governo israeliano, specularmente alle organizzazioni antisemite, insiste invece sulla propria eccezionalità nel mondo e nella storia, quasi la sua espansione coloniale non potesse nutrirsi che dell’esacerbazione di uno scontro simbolico che uccide migliaia di non ebrei e aumenta esponenzialmente i rischi storici per gli ebrei stessi. Compiendo atti criminali, ed affermando che qualsiasi critica a tali atti è antisemita per necessità, il movimento sionista e i suoi sostenitori uccidono la critica non antisemita del colonialismo israeliano, contribuendo a porre l’umanità intera (spesso del tutto ignara, nella sua realtà diversificata, dei caratteri e dei pericoli dell’antisemitismo come attitudine politica) di fronte a una falsa, assurda e temibile scelta: quella tra antisemitismo e barbarie neocoloniale.
Chi ha attaccato in questi giorni, sui media o nelle piazze, il Senato Accademico dell’Università di Torino, sa perfettamente che le sue e i suoi componenti non sono antisemiti, né hanno alcuna ragione di esserlo. Un misto di ignoranza, malafede, irresponsabilità e conformismo motivano però il profluvio di insulti che giova in questi giorni a due sole fazioni: la classe dirigente israeliana, contestata da migliaia di ebrei nel mondo, e chi si batte per l’egemonia delle argomentazioni antisemite all’interno del campo esistente, legittimo e in crescita, della critica al modello israeliano di ingegneria demografica e colonialismo d’insediamento. Questi attacchi non colpiscono allora l’antisemitismo, bensì l’unica opzione culturale che può salvare il pianeta: la critica del dominio, del colonialismo e della guerra come tali, da qualsiasi parte provengano. L’Università di Torino non è arrivata a tanto, ma ha sollevato un dubbio su una cooperazione scientifica in un momento di guerra, che avrebbe potuto giovare a forze armate che stanno compiendo un massacro. È già troppo, evidentemente, per chi sembra aver dimenticato il peso delle parole – ed anche, forse, il rispetto per chi sta soffrendo, e per chi non c’è più.