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Opinioni

Non abituarsi all’orrore, non cedere all’indifferenza: perché è importante parlare del dramma di chi fugge dalla Libia

Ci siamo abituati ad associare le storie dei naufragi, così come di prigionia e violenza, a specifici popoli. Come se fosse perfettamente normale, per chi viene ad esempio dall’Africa subsahariana, passare per alcune esperienze. Ma se a raccontarle fosse qualcun altro, come reagiremmo?
A cura di Annalisa Girardi
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Abbiamo provato ad immaginare che cosa succederebbe se le testimonianze di chi è sopravvissuto ai lager in Libia o alla traversata dei Mediterraneo ci venissero raccontate da persone bianche. Da cittadini europei. Lo abbiamo fatto domandandoci se forse, in questi anni, non avessimo normalizzato la tragicità di alcune storie, cucendole addosso ai loro protagonisti come se fosse tutto naturale.

Come se fosse qualcosa di ordinario, per una persona migrante, originaria probabilmente dall'Africa subsahariana, diventare prigioniera nei centri di detenzione in Libia, essere torturata e ricattata, per poi salpare su barchini precari e rischiare di annegare durante la traversata.

Ma se a raccontarci storie di prigionia e di fuga fosse una persona dall'aspetto diverso, reagiremmo anche noi in modo diverso? Ci indigneremmo di più, alla notizia dell'ennesimo naufragio? Saremmo meno intransigenti, quando sentiamo parlare di respingimenti e centri per il rimpatrio?

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Ci siamo abituati a pensare le migrazioni come numeri. Quarantamila persone arrivate in Italia nei primi tre mesi dell'anno, cosa vogliono dire per noi?

Se ci prendessimo il tempo di ascoltare quarantamila storie diverse, il significato di questo numero probabilmente cambierebbe. Ascoltando o anche solo leggendo i racconti dei sopravvissuti, dando loro un nome e un passato, la prospettiva muta.

Ci sono donne che, una volta arrivate in Italia, hanno raccontato le torture e gli abusi subiti in Libia, nei centri di detenzione dove vengono rinchiusi i migranti. Tanto nei centri gestiti dai trafficanti quanto in quelli sotto il controllo del governo, le violenza sono all'ordine del giorno. Allora diventa inevitabile chiedersi: se queste testimonianze venissero lette ad alta voce nelle scuole, nei teatri, in ogni piazza, l'Italia continuerebbe a finanziare la Guardia costiera libica? O i governi, sentiti questi racconti, avrebbero qualche scrupolo in più?

Chi è il padre di mio figlio? Non lo so, è impossibile dirlo. Quando ti stuprano sono sempre in due, uno ti violenta e uno ti punta la pistola. A volte c’è un terzo che filma.

Quattro uomini per ogni donna prigioniera: ci violentavano così. Tutte le notti. Io sono stata lì un anno, è andata così tutte le notti. Una ragazza era incinta, l’hanno portata in una stanza e l’hanno presa a calci finché ha abortito

Io ci ho messo un anno e sette mesi ad arrivare in Europa. Per un anno sono stata bloccata in Libia, per pagare ai trafficanti il prezzo della libertà ho lavorato gratis, e ho fatto altre cose che non voglio raccontare. Ci hanno messo su un gommone ma non siamo arrivati lontano: la guardia costiera libica ci ha fermato e riportato indietro, proprio nella stessa prigione da cui eravamo partiti. È ricominciato tutto dall’inizio.

Quando sei in Libia non hai più una vita, non puoi più scegliere niente. Devi solo fare quello che dicono, per ripagare i debiti. Ti dicono “Puoi andare con degli uomini, ci sono molti uomini che ti pagherebbero bene. Che ne dici?”. Ma non è una domanda vera. Non hai altra scelta, quando sei loro prigioniera. Non hai più una vita.

Questi sono solo alcuni dei racconti che abbiamo raccolto grazie a ResQ – People Saving People. Altre testimonianze ci parlano dei naufragi, di barconi capovolti e di persone in acqua che non sanno nuotare e gridano aiuto. C'è chi invoca Allah, e chi chiama Gesù. E poi, alla fine, ci sono anche le storie di chi è riuscito ad arrivare solo per trovare porte chiuse in faccia e la desolazione dei centri per il rimpatrio.

Il razzismo ha tante forme, alcune anche inconsapevoli. Pensare che per alcuni popoli siano normali le violenze, i soprusi, rischiare la propria vita per poi finire ai margini, è una forma di razzismo. Smettere di empatizzare e indignarsi, per qualcosa che normalmente scatenerebbe una nostra reazione, solo perché accade a persone che vengono da Paesi lontani e hanno un aspetto diverso, è una forma di razzismo. E ne dobbiamo prendere atto.

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A Fanpage.it sono vice capoarea della sezione Politica. Mi appassiona scrivere di battaglie di genere e lotta alle diseguaglianze. Dalla redazione romana, provo a raccontare la quotidianità politica di sempre con parole nuove.
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