“Deal!”, con questo tweet alle 5.32 del mattino il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha annunciato che finalmente si era arrivati a un accordo sul piano di ripresa dopo l’emergenza Coronavirus. 750 miliardi per il Next Generation Ue, lo strumento temporaneo in cui la Commissione europea per la prima volta contrarrà prestiti sui mercati, 1074 miliardi per il quadro finanziario pluriennale, il budget dell’Unione europea per il 2021-2027. Il compromesso è arrivato per limiti di tempo, per estenuazione. Prolungare ancora di un altro giorno gli incontri avrebbe mandato messaggi preoccupanti a tutti: i mercati, i cittadini, le potenze estere. E così tra i 27 leader riuniti da venerdì a Bruxelles ce ne è più di qualcuno che non riuscirà a rispettare le promesse della vigilia, ma tutti si proclamano vincitori in patria.
L’Italia è riuscita a spuntarla sulla cifra complessiva del fondo. Il Presidente del Consiglio Conte aveva più volte sottolineato che su questo non avrebbe arretrato, stessa promessa fatta sulle condizionalità, ma lì, non è andata come desiderato. Dei 750 miliardi totali, 672,5 sono quelli dedicati al cosiddetto “Recovery and Resilience Facility”, lo strumento specifico per la ripresa, qui 360 miliardi saranno in prestiti, mentre 312.5 saranno di sovvenzioni. Nella proposta iniziale franco-tedesca, poi ripresa da Von Der Leyen, la cifra a fondo perduto sarebbe dovuta arrivare a 500 miliardi. Nelle casse di Roma arriverà una somma più alta di quanto preventivato alla vigilia, anche se la distribuzione non sarà più a favore delle sovvenzioni: 208, 8 miliardi in totale (si era partiti con 173,826) di cui 81,4 miliardi (erano 85,2) a fondo perduto e 127,4 (erano 88.5) in prestiti. Il resto delle risorse viene diviso in programmi dedicati alla gestione delle emergenze, la ricerca, la transizione ecologica e la politica di vicinato, che, però, subiscono pesanti tagli sia rispetto alla proposta della Commissione, che alla prima reazione del Consiglio. Solo a titolo di esempio scompare completamente il fondo dedicato alla salute, che nelle idee di Von Der Leyen avrebbe dovuto raccogliere 9,4 miliardi, scesi poi a 7,7 nel primo compromesso proposto da Charles Michel.
Che cosa prevede l’accordo sul Recovery Fund
Rispetto alla “Recovery and Resilience Facility” il 70 per cento dei fondi verrà impegnato nel 2021 e 2022, mentre il restante 30 per cento a partire dal 2023. Gli Stati Membri dovranno preparare dei piani nazionali in cui stabiliscono il piano delle riforme e degli investimenti che intendono portare avanti, questi dovranno essere “consistenti con le raccomandazioni specifiche per paese, rinforzare la crescita, la creazione di posti di lavoro e la resilienza economica e sociale”, inoltre “la transizione verde e digitale è un prerequisito”. A valutare i piani sarà la Commissione, che avrà due mesi di tempo dalla richiesta presentata. Le risorse per gli Stati saranno subordinate al raggiungimento degli obiettivi e la Commissione chiederà in proposito la valutazione del Comitato economico e finanziario, un organo consultivo dell’Ue. Ma non è finita qui, ed è proprio nel meccanismo che segue che si inserisce la parziale vittoria di Mark Rutte. Il Premier olandese durante le negoziazioni ha cercato di ottenere il potere di veto rispetto all’erogazione dei fondi, non è arrivato a tanto, ma ci si è avvicinato. Si legge nella proposta presentata da Charles Michel: “Se, eccezionalmente, uno o più Stati Membri, considerano che ci sono serie deviazioni dal raggiungimento degli obiettivi, possono chiedere al Presidente del Consiglio europeo di riferire in Consiglio”. In questo caso la Commissione non può prendere una decisione, deve rimanere ferma e aspettare che i leader ne discutano. Per conservare il criterio di efficacia si chiede che non passino più di tre mesi dal momento in cui la Commissione si è rivolta al Comitato economico e finanziario, ma il procedimento rimane farraginoso e rischia di ritardare – se non bloccare – gli aiuti. Non passano invece le modifiche volute da Orban che avrebbe voluto svincolare la ricezione di fondi dal rispetto dello Stato di diritto, il principio rimane, anche se le pressioni del leader ungherese riescono ad addolcire il testo finale.
Tutti contenti quindi? A giudicare dalle dichiarazioni dell’alba sarebbe proprio così. Per Michel “L’Europa è forte e unita”, Macron parla di “un cambiamento storico per la nostra Europa e l’eurozona”, la Cancelliera Merkel si è detta “molto contenta e sollevata”. Un “buon accordo” anche per il premier austriaco Kurz e per Conte “è stata tutelata la dignità dell’Italia”. Non quella dell’Unione europea. L’unica a perdere è proprio lei: questo monolite, all’apparenza immobile, fiorente solo nei sogni di Ventotene o nelle speranze – immediatamente soffocate – di chi approda. Per rendersene conto basta uscire per qualche secondo dalla modalità “emergenza” e osservare il piano finanziario che i leader si sono dati per i prossimi sette anni: tagli su tagli. 1074 miliardi – questa la cifra totale per il budget europeo 2021-2027 – sembrano una somma molto generosa, ma basta confrontarla con le ambizioni del Parlamento europeo, le proposte della Commissione e dello stesso Consiglio a febbraio per rendersi conto che non è così. E’ più bassa anche di quanto garantito nel bilancio precedente, quello che andava dal 2014 al 2020, che arrivava a 1082.
Il Compromesso sul budget europeo è stato al ribasso
Nel testo dell’accordo raggiunto si legge che “c’è bisogno di rinforzare ed estendere le eccellenze scientifiche dell’Unione” eppure viene ridotto il programma che permette di portare avanti la ricerca scientifica, Horizon 2020. Già falcidiato all’interno di Next Generation Ue, perde altri cinque miliardi nella programmazione a lungo termine. Una scelta “difficile da immaginare”, secondo il Consiglio europeo per la ricerca, che, si chiede come “i leader europei possano essersi accordati su questo, quando allo stesso tempo si affidano alle competenze e alla dedizione dei ricercatori europei per combattere la pandemia e tenersi pronti alle prossime sfide”. Rimane decisamente poco ambizioso anche il programma dedicato alla salute che si attesta su 1,6 miliardi, non distante da quanto preventivato prima dell’arrivo del Coronavirus. Erasmus +, il progetto bandiera dell’Unione, non riesce a raggiungere l’importante cifra chiesta dal Parlamento europeo (41 miliardi) e si ferma a 21,2 come preventivato già a inizio anno. Risorse in meno, rispetto agli anni precedenti, anche per gli aiuti umanitari e per la cooperazione internazionale. Rimangono saldi invece i fondi per la difesa, che passano da uno 0,5 del 2014-2020 a 7 miliardi per il 2021-2027. Non viene toccato neanche il nuovo controverso strumento, lo “European Peace Facility”, un programma off-budget che garantirà cinque miliardi per l’esportazione di armi in zone di guerra.
A fronte dei tagli che investono tutti i programmi più importanti dell’Unione europea, l’unica cosa che aumenta sono gli sconti per alcuni paesi. I cosiddetti “rebates”, una formula nata per la Gran Bretagna sotto richiesta di Margaret Tatcher e che si sperava di abbandonare insieme alla Brexit, che allevia il contributo netto al budget europeo garantendo il ritorno di alcune risorse. Non è così. La Danimarca si aggiudica 322 milioni, 3761 milioni per la Germania, 565 milioni per l’Austria, 1069 milioni per la Svezia e ben 1921 per l’Olanda, più del doppio di quanto era riuscita ad aggiudicarsi nel 2014-2020: 695 milioni.