“Perché un cittadino dovrebbe votare per sul Movimento 5 Stelle? Dovremmo chiederci questo e capire se le risposte che valevano per gli anni passati valgono ancora adesso o se non sia giunto il momento di fermarci e cambiare strada, prima che sia troppo tardi”. È più o meno questo il ragionamento che fa un senatore del Movimento 5 Stelle quando gli chiediamo lumi sul documento “contro” Di Maio e sulla frammentazione dei gruppi parlamentari, questioni al centro dell’agenda politica dei palazzi ma del tutto marginali nel dibattito pubblico. In effetti, la fronda interna ai 5 Stelle, oltre a non essere una novità assoluta (da tempo i grillini sono divisi in correnti più o meno corpose), è anche in questo caso la spia di problemi più complessi, emersi con maggiore nitidezza nel momento in cui la crisi politica ha rotto l'equilibrio faticosamente raggiunto dopo le politiche del 4 marzo. Ed è da quella data che bisogna partire se si vuole capire cosa sta accadendo (e cosa accadrà) al Movimento 5 Stelle.
Probabilmente non abbiamo ancora compreso bene che cosa è accaduto alle politiche scorse ed abbiamo fin troppo sminuito la portata e le conseguenze del risultato raggiunto dal partito / non partito guidato da Luigi Di Maio. È stato un evento “irripetibile”, che ha cambiato la scena politica italiana e lo stesso Movimento 5 Stelle. Dopo una campagna elettorale trionfale e il boom di consensi, per concretizzare la possibilità di portare al governo il partito nato da un vaffa è stato necessario che si completasse un percorso molto complesso: il passaggio da “mai alleanze con nessuno” a “mai alleanze con i partiti che hanno distrutto l’Italia”, che poi è diventato un sì alle “alleanze con chi ci sta e condivide il programma” e addirittura alle “alleanze intorno a un programma condiviso”.
Questo lento scivolamento, l’aspetto più evidente della trasformazione del Movimento in partito, ha portato alla luce le tante contraddizioni non risolte, i limiti strutturali e programmatici, le lacune della classe dirigente e l’inadeguatezza di una proposta politica complessiva che ha subito dimenticato gli orizzonti più ampi (la “visione” di Casaleggio, la democrazia diretta, la rivoluzione nelle forme della pratica politica) in nome di un mai ben specificato e sempre mutevole “programma”, che ha avuto la solo funzione della foglia di fico, peraltro incapace di coprire le nudità della creatura di Beppe Grillo.
In altre parole, i 5 Stelle si sono ritrovati a essere centrali nel panorama politico italiano senza bussole ideologiche, con una classe dirigente ancora in formazione, in una vasca di squali. E nel tempo si sono persi. Lasciando per strada pezzi consistenti di elettorato per poi aggrapparsi a una figura che è la fotografia di tutto ciò che c’è di irrisolto e contraddittorio all’interno del Movimento 5 Stelle: Giuseppe Conte, partito come avvocato del popolo ed evolutosi nel garante di un patto politico per garantire la stabilità del sistema economico e istituzionale italiano; uomo selezionato dal M5s ma mai grillino e “sempre stato di sinistra”; terzo incomodo nel duello fra Salvini e Di Maio ma subito dopo “sola figura spendibile” per il governo con il PD; seguace del “nuovo umanesimo” ma fervente sostenitore del post-ideologismo.
Ecco perché la “crisi” dei Cinque Stelle va molto oltre il ruolo e la figura di Luigi Di Maio. Che ha certamente delle responsabilità, ma da mesi, forse anni, supplisce a mancanze strutturali e sussume su di se il peso delle lacune di una intera classe dirigente. Dopo il panchinamento di Beppe Grillo, Di Maio era apparso l’unico leader spendibile, una figura iconica in grado di rappresentare i 5 Stelle in toto, di attrarre consenso e di proiettare il Movimento oltre la protesta. Aveva nascosto le contraddizioni dei 5 Stelle, subordinando completamente la politica alla comunicazione e decidendo di ridurre gli spazi di democrazia interna, circondandosi di fedelissimi e premiando il suo circoletto.
Ha accentrato troppi ruoli e incarichi su di se? Ha portato il M5s a schiacciarsi sulla linea leghista prima e democratica ora? Ha mortificato il dissenso interno? Probabilmente sì, ma la polemica andava sollevata anche quando il M5s si è trasformato da “leaderless” in partito tradizionale, legato ai nomi, ai volti, alle fanbase dei singoli parlamentari. Quando, in nome della madre di tutte le battaglie (conquistare il Palazzo), si sono sacrificati tutti i totem storici (l’uno vale uno, il doppio mandato, le alleanze e via discorrendo), che costituivano i capisaldi per una comunità, già a corto di riferimenti ideologici, politici e simbolici (fondamentali per un partito senza una storia, un pantheon, un vissuto collettivo). Quando ha cominciato a perdere di senso ogni risposta alla domanda "perché gli italiani dovrebbero votare il M5s", per tornare al discorso iniziale. È chiaro che un approccio esclusivamente "result oriented" (ora Di Maio via, prima Di Maio bene) non può avere senso, soprattutto nella consapevolezza che non basterà convincere il ministro degli Esteri a fare un passo indietro per uscire dal vicolo cieco in cui si sono andati a cacciare i 5 Stelle.
Ecco, ora bisognerebbe rendersi conto che una riflessione identitaria, ideologica, culturale non è più rinviabile sarebbe il primo passo. Che possa partire da quello che è stato denominato il “team del futuro” (il nuovo direttorio allargato) è secondario, il punto è: i grillini vogliono rimettere in discussione tutto, riscrivere un libro o vogliono cambiare solo la copertina?