Continua tra alti e bassi la discussione sul progetto di riforma costituzionale. In Senato infatti "prosegue l'esame dei disegni di legge costituzionali su riforma del Parlamento e forma di governo (n. 24 e connessi)": si tratta ovviamente delle modifiche agli articoli 55 e 57 della Costituzione, nonché dell'abrogazione dell'articolo 58, in materia di composizione del Senato della Repubblica e di elettorato attivo e passivo. Nella giornata di ieri il Senato ha detto no ad un emendamento sulla "parità di genere nella rappresentanza elettiva", che in pratica avrebbe stabilito una parità fra il numero di senatori e senatrici. L'emendamento è stato bocciato con 155 no, 108 sì e 23 astensioni, dopo non poche polemiche, sollevate principalmente dalla capogruppo del Partito Democratico Anna Finocchiaro. In effetti, a sostegno della proposta si erano schierati Italia dei valori, PD, Api, Fli e Autonomie, mentre il Popolo della Libertà e la Lega Nord hanno votato in modo contrario. La linea è stata esplicitata da Roberto Calderoli che ha sottolineato come in tale "versione" dell'emendamento (la precedente parlava genericamente di "garantire la rappresentanza delle minoranze e della parità di genere"), ad essere garantite non fossero "le pari opportunità nel merito, ma la parità di genere nel risultato […] mentre l'articolo 48 della Costituzione dice che il voto è libero, mentre noi introduciamo un vincolo sulla parità di genere e dunque il voto non è più libero e la norma è incostituzionale". Ai limiti del surreale invece le motivazioni dei senatori radicali che, come riporta l'Agenzia DIRE, hanno scelto di astenersi perché la norma non avrebbe tutelato i trans: "Come la mettiamo col divieto di cambiare genere una volta eletto?".
Insomma, per il momento niente garanzia di parità di genere nella rappresentanza elettiva. Una questione complessa, che chiama in causa anche orientamenti di carattere ideologico e che, almeno nell'umile considerazione di chi scrive, non può essere motivo di scontro politico. La norma ipotizzata nasce evidentemente da una presunta "disparità di partenza", nonché da una presunta discriminazione nell'accesso all'attività politica, nonché da presunti pregiudizi che vincolerebbero una valutazione di merito sulla "carriera, sulle qualità e sulle potenzialità" di chi aspira a rappresentare i cittadini. In presenza di queste tare originarie, la composizione della rappresentanza politica sarebbe squilibrata in senso maschile. Valutazioni sulle quali è possibile convergere o meno, mentre è indubbio che la composizione attuale del Parlamento sia fortemente "diseguale". Quanto però alla necessità di intervenire tramite legge, ci sentiamo di fare qualche semplice domanda:
- Non si tratta di una corsia preferenziale e dunque di una forzatura?
- Il discrimine sulla scelta di un rappresentante politico non dovrebbe essere il merito?
- Come la mettiamo con le "altre" rappresentanze? I giovani, ad esempio. Oppure gli immigrati, i portatori di handicap (esempi a caso, sia chiaro). Anche in questo caso vi sono limiti all'accesso "politico", quindi anche per loro prevediamo quote?
- Siamo proprio sicuri che un politico venga "emarginato" in quanto donna?
- Cosa ci spinge a diversificare i politici in base al sesso?
- Se paradossalmente gli italiani si rivelassero "così maturi" da votare il 75% delle donne, cosa accadrebbe?