Qualcuno sostiene che l’emergenza immigrazione stia tirando fuori il peggio di questo Paese. Qualcun altro si appella all’assioma di Eco, sostenendo che l’odio e l’intolleranza trovino terreno fertile sui social network ed esecrando gli spazi aperti in cui l’uomo qualunque ha lo stesso peso del “premio Nobel” (due boiate in una, per la verità, considerando che gli esempi peggiori arrivano dalle elite e che “lo stesso diritto di parola” non è lo stesso manco per niente…). Qualcuno se la prende con la politica, qualcuno avverte che “gli italiani sono stanchi e incazzati”, qualcuno profetizza rivoluzioni (o restaurazioni) a breve, qualcuno si chiede fino a quando durerà la pazienza degli italiani.
Quasi tutti però sono d'accordo: basta con questo buonismo del cazzo. Ecco, supponiamo che abbiano ragione. E vediamo quale sarebbe l'alternativa.
Tutti a casa della Boldrini? O a casa mia, magari. Perché alla fine lo diceva anche Pertini (certo, come no…). E comunque ‘sti cavolo di 35 euro a testa li potremmo dare agli italiani. E poi, che diamine, l'Isis, l'Ebola, la scabbia, la bomba atomica. Perché non c'è più posto ed è vero che non siamo razzisti, ma non si può accogliere più nessuno. Tanto è vero che i nostri nonni e bisnonni emigravano solo autorizzati e non vivevano nell'illegalità, nella sporcizia o tra le malattie. E poi c'è la gente che si suicida perché non arriva alla fine del mese, quindi prima gli italiani. Però non siamo razzisti, accogliamo chi ha i requisiti e mandiamo indietro gli altri. Alla fine è tutto un magna magna e le cooperative rosse, la mafia e la camorra fanno affari d'oro con la complicità dei politici. Per mettere gli immigrati in alberghi a 4 stelle con piscina. Con cellulare e sigarette gratis. Che poi questi scappano dalla fame ma hanno la forza di resistere agli sgomberi.
Però, ecco, non basta elencare e stigmatizzare (ovviamente ho scelto fior da fiore, ma qui, qui e qui ad esempio c'è molto materiale su cui riflettere). Bisogna capire, o almeno provarci. Come si è giunti a questo? Da dove nasce l'odio, l'intolleranza, il disprezzo, il cinismo?
Una riflessione decisamente interessante è quella di Bauman, che prova a partire dall’inizio: “La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al nostro controllo […] In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie”. Ma c’è un altro aspetto, per nulla secondario: “Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto”. Su questo clima si innesta la propaganda delle forze razziste e xenofobe, che alimentano un circuito vizioso, con la “complicità decisiva” dei mezzi di informazione. Il meccanismo è sempre lo stesso, ben collaudato: creare insicurezza e paura a scopo di controllo sociale (o di un “gruppo” sociale), indirizzare la percezione dei soggetti deboli in modo che sentano come una minaccia “soggetti esterni e più deboli”, eliminare distinguo e singole scelte omologando il pensiero su temi specifici (pensiamo alla facilità con cui si parla di “islamici”), utilizzare retorica e demagogia per coprire l’inconsistenza ideologico – culturale delle “proposte alternative”.
Un ulteriore elemento chiarificatore, a mio avviso, è dato dalla cosiddetta componente vittimista (qui riassunta in maniera impeccabile). Perché il vittimismo rifiuta la complessità, omologa le reazioni ed è completamente deresponsabilizzante: “La sintesi nella famosa regola di Homer Simpson: se non fai non sbagli, non provarci nemmeno. Anzi diffida di chi ci prova, sempre. Assumersi responsabilità, cercare alternative è pericoloso per l’Ordine Costituito. E poi tu chi sei, per volerci provare? Stai al tuo posto”. Stai a casa tua. O comunque lontano dal mio sguardo, dalla mia sfera privata. E chi si interessa al problema andasse fino in fondo, e se li portasse a casa sua.
Ma da questa narrazione tossica è possibile affrancarsi? Ci ragiona Arianna Ciccone su Valigia Blu:
Questa spietatezza, questo non vedere l’altro come un essere umano, questo sentimento diffuso di odio, ostilità, disprezzo sempre più esteso – “orda selvaggia e dilagante” – è l’orrore dei nostri tempi. A questo orrore bisogna opporsi con tutte le nostre forze. A parte la verità dei dati e dei fatti da contrapporre di volta in volta alla disinformazione, alle bufale, alla malafede sui temi dell’immigrazione – nel nostro piccolo ci stiamo lavorando e a breve uscirà un articolo approfondito a firma di Angelo Romano e Andrea Zitelli -, c’è un altro racconto da far emergere, a cui dare sempre più forza e visibilità. È il racconto dell’accoglienza. Dell’abbraccio. Piccole, grandi storie che ognuno di noi può condividere, diffondere. Racconti-anticorpo contro il veleno che ci vuole disumani.
Parlare "il linguaggio della verità", attenersi ai "fatti" (depurati dalla propaganda e dalle strumentalizzazioni politiche), raccontare l'evolversi della situazione senza forzature, evitare le speculazioni, insomma. Magari cominciando a dire che no, non c'è una emergenza epocale e no, non ci sta invadendo nessuno e sì, siamo un grande Paese in grado di accogliere 2/300 mila persone se necessario e sì, abbiamo il dovere di salvare quante più vite possibile in mare e no, non andremo in bancarotta per questo e no, la crisi, la disoccupazione e le mezze stagioni non c'entrano niente e no, non ci sono terroristi fra i migranti e sì, arrivano persone che fuggono da guerre e fame.
E dare voce all'Italia della solidarietà, dell'accoglienza, dell'integrazione. Che esiste, eccome. E che magari non presidierà "i social" in modo ossessivo compulsivo (poi, con calma, ragioneremo anche delle interazioni deboli su facebook, del valore di un like o di un commento buttato lì e del modo in cui un mood, una thumb o una call to action influenzano le risposte degli utenti), ma agisce, si mette in gioco, investe tempo e denaro per ciò che ritiene giusto, doveroso. Umano, in una sola parola.
Tutto ciò basta a definirci buonisti? Pazienza.
Meglio buonisti che cattivisti, direbbe qualcuno. E poi, ha ragione Gilioli: "Con i razzisti, buonisti un cazzo".