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Nave di Emergency da un anno in mare: “Soccorse oltre 1200 persone, ci hanno impedito di salvarne di più”

Un anno di attività di soccorso per la Life Support, nave di Emergency. La presidente Rossella Miccio a Fanpage.it: “Abbiamo salvato più di 1200 persone in mare. Purtroppo avremmo voluto e potuto fare di più, se ce lo avessero lasciato fare. Questo testimonia l’impatto nefasto che hanno sulla vita delle persone le politiche europee e italiane sull’immigrazione”.
A cura di Annalisa Cangemi
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Un anno di attività di ricerca e soccorso in mare per la Life Support di Emergency, in uno degli anni più difficili per le Ong che salvano dei migranti in mare, quello del decreto Piantedosi (decreto-legge 01/23), primo atto giuridico del governo Meloni nel 2023, successivamente convertito in legge (L. 15/23), e della politica dei porti lontani.

La nave Ong, che può accogliere fino a 175 naufraghi, oltre al personale di bordo, ha lasciato il porto di Genova per la sua prima missione il 13 dicembre 2022. Da allora ha effettuato 15 missioni, di cui una senza soccorsi, percorrendo quasi 40.000 km (pari alla circonferenza della Terra) e navigando per 105 giorni nelle acque del Mediterraneo. Durante la sua attività in mare, la Life Support ha salvato 1.219 persone, portando a termine 24 operazioni di soccorso in acque internazionali: 8 nella zona SAR libica e 16 nella zona SAR maltese. Dati raccolti nel report ‘Non restare a guardare. Un anno di soccorsi mare della Life Support', appena pubblicato da Emergency, che certifica come il soccorso in mare sia stato sistematicamente ostacolato in tutto il 2023 e anche nei primi mesi del 2024. Per effetto del decreto Piantedosi, sono state disposte in tutto 14 detenzioni amministrative (per la durata totale di circa 260 giorni), mentre sono oltre 3707 i giorni che gli assetti delle Ong hanno impiegato per raggiungere i porti lontani.

Quest'anno la nave Life Support si è vista assegnare i porti di Brindisi, Civitavecchia, Livorno, Marina di Carrara, Napoli, Ortona, Ravenna e Taranto. Per raggiungerli ha percorso in media 630 miglia nautiche e impiegato 3,5 giorni di navigazione. Ne abbiamo parlato con la presidente di Emergency, Rossella Miccio.

Rossella Miccio, presidente di Emergency
Rossella Miccio, presidente di Emergency

Qual è il bilancio di questo primo anno di attività? Che impatto hanno avuto su di voi le politiche del governo?

Il bilancio è sicuramente positivo, perché abbiamo salvato più di 1200 persone in mare, il che dimostra che il nostro lavoro è utile e necessario. Purtroppo avremmo voluto e potuto fare di più, se ce lo avessero lasciato fare. Questo testimonia l'impatto nefasto che hanno sulla vita delle persone le politiche europee e italiane sull'immigrazione, come gli accordi con la Libia, con la Tunisia, e in questi ultimi giorni abbiamo avuto anche la firma del memorandum con l'Egitto. Noi tutto questo lo osserviamo dal punto di vista di chi subisce queste politiche sulla propria pelle, rischiando anche la vita. Questo ci porta a essere determinati a continuare. Infatti abbiamo ripreso le nostre attività dopo una piccola pausa invernale per sistemare alcune cose sulla nave, abbiamo già effettuato le prime due missioni e siamo pronti a ripartire per la terza, perché ce ne è ancora bisogno.

Quando la nave Life Support è stata messa in attività a dicembre 2022, è rimasta poi bloccata nel porto di Livorno per oltre 49 giorni a causa di numerose richieste di chiarimenti avanzate dalla Guardia Costiera Italiana allo Stato di bandiera, Panama. Cosa è successo? Allora non era nemmeno in vigore il decreto Piantedosi. 

La nave era in realtà pronta a partire, ma abbiamo dovuto rimandare di alcune settimane, perché le autorità italiane hanno richiesto una serie di documenti aggiuntivi, non a noi direttamente ma appunto allo Stato di bandiera, Panama. Documentazioni che erano state già condivise e consegnate alle autorità di bandiera, ma le autorità italiane hanno chiesto ulteriori approfondimenti, che hanno comportato un ritardo di 49 giorni rispetto alla data di partenza prevista. È stato il primo segnale che ci ha permesso di capire che non ci avrebbero reso il compito semplice. Noi eravamo tranquilli, perché avevamo fatto di tutto per mettere in piedi un'imbarcazione che fosse adatta dal punto di vista tecnico, strutturale, legislativo a soccorrere le persone in mare. Questo è avvento prima dell'approvazione del decreto Piantedosi, che è stata solo la formalizzazione di una politica che era già evidente da prima, ovvero l'intento di ostacolare i soccorsi civili in mare.

Per colpa del Codice Piantedosi siete stati costretti a rinunciare in più di un'occasione a effettuare salvataggi multipli, visto che il decreto impone alle Ong di raggiungere il porto di sbarco assegnato dalle autorità competenti senza ritardi. C'è un caso in particolare che ricorda?

Ce ne sono stati tanti, il più recente si è verificato proprio nella nostra ultima missione. Dopo il primo salvataggio ci era stato chiesto di andare a verificare un caso di distress, che era stato segnalato dalla Guardia Costiera italiana. La Life Supoort lo ha cercato tutta la notte, ma non è riuscita a individuarlo. Al mattino abbiamo chiesto di poter continuare le ricerche, ma ci è stata negata l'autorizzazione, perché avevamo già delle persone a bordo. Anche quando sono le stesse autorità a chiederci di verificare un secondo caso di distress, se non ci troviamo nelle immediate vicinanze dal barcone in difficoltà e serve più tempo per la ricerca, non ci viene data la possibilità di portare avanti la missione. Purtroppo la risposta standard, in quasi tutti i casi, salvo pochissime eccezioni, è sempre l'invito a raggiungere nel minor tempo possibile il porto assegnato.

Ci sono state ben 42 segnalazioni di casi di distress notificati dalla Life Support dopo aver effettuato la prima operazione di salvataggio, che hanno ricevuto una risposta negativa o nessuna risposta dal Centro di coordinamento italiano dopo l'assegnazione di un porto di sbarco. Un numero impressionante. Quando ottenete una risposta negativa qual è la motivazione che viene fornita?

Ci dicono di non deviare il percorso della nave dalla rotta verso il Pos, ricordandoci che nel gennaio 2023 è entrato in vigore il decreto Piantedosi. Anche quando domandiamo se qualcun altro si sta occupando dei nuovi casi di distress che ci vengono segnalati non ci viene data nessuna risposta.

Se la ratio è mettere al sicuro i migranti già recuperati in mare nel più breve tempo possibile cozza evidentemente con la politica dei porti lontani, che determina un'assenza prolungata delle Ong dall'area del Mediterraneo centrale. 

Assolutamente. Tra l'altro solo alle navi Ong vengono assegnati porti lontani, e non a quelle per esempio della Guardia Costiera o alle navi mercantili che ogni tanto effettuano soccorsi in mare. Non si capisce per quale motivo solo noi dobbiamo affrontare viaggi di quattro o cinque giorni, visto che, e lo dicono i dati del Viminale, solo una minima percentuale delle persone che arrivano nel nostro Paese vengono soccorse da Ong. Non c'è nessuna logica, se non quella punitiva.

Nel vostro report balza all'occhio un dato: quasi metà dei giorni di navigazione della Life Support sono stati dedicati al viaggio verso un porto lontano, piuttosto che alle attività di ricerca e soccorso. 

Ancora oggi è così, l'ultimo porto che ci è stato assegnato è stato quello di Ravenna, ci abbiamo messo quasi cinque giorni per raggiungerlo. E ne impiegheremo altrettanti per tornare in zona Sar.

Quest'anno siete stati anche testimoni diretti di casi di respingimento o di azioni di disturbo per esempio da parte della cosiddetta Guardia Costiera libica. C'è un episodio in particolare che ricorda?

Ci sono stati episodi in cui è stata coinvolta la Libia, ma sempre più spesso anche la Tunisia, che continuiamo a considerare un porto non sicuro. Nella nostra penultima missione, circa tre settimane fa, ci sono stati due ‘incontri', con la Guardia Costiera tunisina e con quella libica. In un primo momento ci hanno mandato ad assistere delle persone che si erano rifugiate su una piattaforma petrolifera tunisina. Ma quando stavamo per soccorrere le persone per portarle in salvo, ci è stato detto che l'unica cosa che ci veniva richiesta era aiutare a trasferirle su una nave militare tunisina, che non era ancora presente sul posto. Abbiamo risposto che non lo avremmo fatto, perché eravamo lì per prendere questi naufraghi e portarli in un luogo sicuro. A quel punto non ci hanno fatto avvicinare alla piattaforma e al mattino dopo quelle persone non c'erano più. Quindi immaginiamo siano state prese dalle autorità tunisine. Poi, durante il soccorso successivo, ci è stato comunicato dalle autorità il coordinamento da parte di una motovedetta libica, che però non era in zona. Quindi noi abbiamo portato a termine il soccorso e poi chiesto un porto per portare le persone in Italia. La situazione sta diventando davvero molto complessa, gli attori si moltiplicano e non sempre le comunicazioni sono chiare.

La vostra presenza nel Mediterraneo centrale è necessaria, e lo dimostrano i dati: la metà dei casi soccorsi da voi (13) sono stati segnalati dagli aerei di altre Ong o da Alarm Phone. Mentre 5 casi sono invece stati avvistati direttamente dal ponte della Life Support, senza che fossero state mandate indicazioni dalle autorità. Che fine avrebbero fatto questi migranti se non fosse stata operativa la nave di Emergency o altre navi umanitarie?

Questo è un altro tema. Noi continuiamo a non essere coinvolti in maniera adeguata nel sistema di monitoraggio ufficiale. Esiste un pattugliamento europeo di tutta la zona con Frontex, che ha aerei che sorvolano l'area. Molto raramente questi assetti europei informano le Ong che sono in mare, chiedendo il loro intervento, ma normalmente parlano solo con le autorità statali, che alla fine non ci coinvolgono. Non sappiamo quindi quanti siano davvero i casi di distress, né cosa succeda a tantissime persone in mare. Alcune vengono salvate dalla Guardia Costiera italiana o da navi mercantili, altre invece siamo abbastanza sicuri che vengano respinte, ricatturate e riportate in Libia o in Tunisia. La criminalizzazione delle Ong non si limita a impedire a noi di fare un lavoro indispensabile, ma si concretizza anche nello spingere altri soggetti, soprattutto navi mercantili, a commettere illeciti, ingaggiandole per riportare queste persone in territori non sicuri.

La questione dell'esternalizzazione delle frontiere, che da anni è la principale strategia della politica migratoria europea finalizzata al contenimento delle partenze, ci porta a una domanda: quante risorse si sprecano per fare accordi con gli Stati? Per il protocollo Italia-Albania si stima che i costi potrebbero superare i 600 milioni di euro fino al 2028. Risorse che il governo avrebbe potuto destinare al rafforzamento del sistema di accoglienza o al potenziamento delle attività di ricerca e soccorso.

Noi infatti non ci stanchiamo di ripetere che le risorse per mettere in piedi delle missioni istituzionali europee, non sono italiane, ci sarebbero. E lo testimonia il fatto che continuiamo a firmare accordi con i Paesi del Nord Africa, in cui spesso i diritti umani non vengono rispettati. L'ultimo è quello siglato con l'Egitto, un piano da 7,4 miliardi di euro, di cui 200 milioni sono dedicati alla gestione dei flussi. Vuol dire che le risorse ci sono, ma vengono sperperate per esternalizzare sempre di più le frontiere della fortezza Europa, che però ovviamente fa acqua da tutte le parti. Noi chiediamo un'inversione di tendenza immediata, che parta dal principio che il rispetto della vita umana e dei diritti debba essere il fondamento delle nostre scelte politiche, con il contributo di tutti, compreso quello delle Ong.

Dove si trova in questo momento la Life Support?

In questo momento è in viaggio da Ravenna, diretta verso la zona più calda del Mediterraneo, e non sarà operativa purtroppo prima di una settimana.

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