Migranti, gli Sprar e un modello possibile di integrazione
Dal giorno dello sgombero dello stabile in via Curtatone gli immigrati che occupavano l'edificio, per lo più tutti richiedenti asilo, hanno solo una preoccupazione: "dove vivere". In molti, nei giorni scorsi, hanno espresso le loro paure e la situazione non è migliorata con la decisione del Comune di trasferire parte degli sfollati nei centri di accoglienza della capitale. I migranti non vogliono separarsi dalle proprie famiglie, come spiegato a Fanpage.
Lo stabile di via Curtatone, all'angolo con Piazza Indipendenza e a pochi passi dalla Stazione Termini, era occupato da un centinaio di somali ed eritrei che, da circa quattro anni, viveva al suo interno. Il 19 agosto la decisione di effettuare lo sgombero con i migranti che avevano deciso di accamparsi a Piazza Indipendenza. Il 24 agosto la polizia liberava il piazzale antistante alla stazione usando anche il getto degli idranti. Tante le polemiche, nei giorni successivi, per il comportamento tenuto da un agente che, durante gli sgomberi, ordinava "devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio"; per la successiva dichiarazione del Ministro Minniti preoccupato per "la tenuta democratica del Paese"; per la sindaca Raggi che annunciava "tolleranza zero per nuove occupazioni" . Poi la decisione del Viminale di "non autorizzare nuovi sgomberi senza la sicurezza di posti di accoglienza". I rifugiati di Piazza indipendenza avevano infine deciso di accamparsi a Piazza Madonna di Loreto, nei pressi di Piazza Venezia, ma con un nuovo intervento parte di loro erano stati portati in centri di accoglienza. Non tutti avevano accolto però la proposta di vivere nei centri perché molti non vogliono separare le loro famiglie.
A mancare infatti è la possibilità di accogliere interi nuclei famigliari nei centri della rete Sprar; solo alcuni di essi sono per le famiglie, altri per soli uomini e altri ancora per sole donne. Per i rifugiati di Piazza Indipendenza Roma ha solo una novantina di posti in totale a disposizione, alcuni per centri maschili e altri per quelli femminili. Sembrerebbero essere tutti esauriti quelli per le famiglie.
Ma come funzionano questi centri del sistema nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati? E soprattutto offrono una possibilità di integrazione sociale per il singolo migrante?
La rete Sprar nasce nel 2001 con un accordo fra ministero dell’Interno, ANCI e UNHCR. Il progetto gestisce i centri di seconda accoglienza dove gli operatori, oltre al vitto e alloggio, offrono una serie di servizi ai migranti, dall'informazione allo studio della lingua italiana, dall'orientamento alla possibilità di lavoro in ditte esterne.
La prima accoglienza, con identificazione e prestazioni di primo soccorso, viene invece gestita dagli Hotspot e gli hub regionali, nati dalla conversione di quelli che erano i centri CARA, CDA, CPSA. È qui che i migranti aspettano le verifiche per il riconoscimento dello status di rifugiato politico per poi essere inseriti, in caso di esito positivo, nella rete dei centri SPRAR.
Quanti sono i centri Sprar in Italia
Sono 768 i progetti Sprar (603 ordinari, 115 per minori non accompagnati, 50 per persone con disagio mentale o disabilità) attivi sul territorio nazionale, stando al comunicato del luglio 2017; di questi 50 nel Lazio. Roma conta 12 progetti (9 ordinari, 1 per minori non accompagnati, 2 per persone con disagio mentale o disabilità), per un totale di 3095 posti disponibili. L'ultimo bando per l'adesione dei comuni è stato chiuso a febbraio 2016, ma le iscrizioni sono state basse: su 10.000 posti previsti dal Ministero dell'Interno, i comuni ne hanno messi a disposizione circa la metà. Il problema è quindi che molte città si dimostrano poco interessate all'accoglienza.
Cosa offre un centro Sprar
Quello che offre lo Sprar è un percorso di tipo "integrato". Compito principale dei centri è quello di dare vitto e alloggio con generi di prima necessità, tenendo presente anche le esigenze culturali del singolo ospite. Il rifugiato può inoltre usufruire di servizi secondari, ma la gestione di questa offerta cambia a seconda delle diverse conformazioni delle strutture che possono essere sia appartamenti singoli, con ampia autonomia gestionale, o centri collettivi con la presenza di operatori. Oltre agli operatori nei centri lavorano volontari che organizzano attività, da singoli corsi in base ad accordi interni al supporto psicologico singolo o collettivo. Fondamentale è la partecipazione a un corso di lingua italiana. Infine la possibilità di tirocini esterni, che nelle linee guida del progetto è così specificata:
Con l’obiettivo di accompagnare ogni singola persona accolta lungo un percorso di (ri)conquista della propria autonomia, i progetti territoriali dello SPRAR completano l’accoglienza integrata con servizi volti all’inserimento socio-economico delle persone. Sono sviluppati, in particolare, percorsi formativi e di riqualificazione professionale per promuovere l’inserimento lavorativo, così come sono approntate misure per l’accesso alla casa
La difficoltà di integrazione
Il vero problema però è che queste strutture supportano il migrante soltanto per un arco temporale di tempo limitato. Una volta ottenuti i documenti gli immigrati sono ancora una volta soli e da soli devono cercare di integrarsi nel tessuto sociale che li ha accolti. Il centro li aiuta a trovare una stabilità, spesso anche emotiva mediante supporto psicologico, avvia la pratica per il rilascio dei documenti e organizza corsi interni e tirocini esterni, ma non può fare altro. A specificarlo è anche Daniela di Capua, direttrice centrale Sprar, che ci ha spiegato:
Le prospettive di lavoro dipendono dal singolo territorio. L'obbligo dei progetti di Sprar è quello di fornire ai beneficiari dell'accoglienza tutti gli strumenti utili per acquisire autonomia attraverso corsi di lingua, di formazione, di riqualificazione delle competenze e anche con i tirocini. Nel piano finanziario che il Comune deve presentare quando fa la proposta progettuale alla commissione di valutazione del ministero dell'interno c'è la voce "spese per l'integrazione" che è obbligatorio utilizzare. Questa voce prevede una percentuale minima del 7% del budget complessivo che deve essere utilizzata per l'integrazione e non può essere riconvertita in altra spesa. Ma questo non coincide concretamente con il reperimento di un lavoro perché questo dipende dalle opportunità che offre il territorio e da quanto il progetto è riuscito a incrociare le competenze del singolo con le effettive opportunità del posto. La rete Sprar non può fare da agenzia di collocamento e pur non inserendo le persone in contesti lavorativi le mette in condizioni di farlo poi da soli. Infatti al migrante, una volta terminato il tirocinio, viene rilasciato un curriculum dove si fa riferimento all'esperienza fatta e sulla quale si possono chiedere referenze. C'è un certificato che, allegato al curriculum, attesta il tirocinio svolto e le competenze acquisite.
Insomma è poi il migrante stesso che, durante la sua permanenza nella struttura, deve trovare contatti e provare a stabilire un rapporto di lavoro; difficilmente l'ente con cui ha collaborato rinnova il tirocinio con un contratto. La soluzione più facile è trovare qualche connazionale che già risiede sul territorio, magari ricongiungersi con famigliari e amici, ma spesso anche loro non hanno grandi opportunità. La rete Sprar non può quindi seguire i migranti una volta lasciati i centri, ma Daniela di Capua sottolinea che i numeri sono incoraggianti in merito alle possibilità di inserimento lavorativo: "Si possono verificare casi di continuità lavorativa, anche una volta lasciato il centro. L'anno scorso sul numero di persone uscite nel 2016 il 42% ha trovato opportunità di inserimento lavorativo, come scritto nel rapporto sulla protezione internazionale 2016".
Bisogna poi anche essere chiari sulla questione dei 35 euro che lo Stato italiano elargisce al giorno per migrante e sul pocket money. La coordinatrice centrale Sprar specifica che:
Ogni progetto non costa uguale all'altro. Trentacinque euro al giorno è il costo medio e di questa somma il 5% è il coofinanziamento messo dall'ente locale e non è mai in denaro ma basato sulla valorizzazione o di personale del comune che si dedicherà anche in parte alla gestione al progetto Sprar, quindi è una somma che andrà allo Sprar come finanziamento, oppure può andare struttura valorizzata dal comune stesso attraverso questo finanziamento. Il 95% del resto della cifra viene pagato dal ministero dell'interno come fondi ordinari e questi soldi vanno al migrante soltanto nella misura del pocket money che mediante è di 2.50 al giorno tutto il resto è per pagare gli stipendi del lavoratori, gli affitti delle strutture, i beni acquistati nei negozi e le spese per l'integrazione, come l'assicurazione.
Il Modello Riace
Nel panorama dell'accoglienza italiana c'è però un'eccezione: quella del comune di Riace, paesino calabrese ai piedi dell'Aspromonte. È qui che il sindaco Domenico Lucano, al suo terzo mandato, ha dato vita a un progetto che investe sull'accoglienza e vede nei migranti una risorsa. Riace, paese dell'entroterra calabro con poco più di duemila abitanti, rischiava con gli anni di diventare uno di quei paesi fantasma dove a mancare non era solo un ricambio generazionale ma anche la popolazione che preferiva trasferirsi altrove in cerca di nuove opportunità, soprattutto lavorative. Era il 1998 quando Lucano, dopo lo sbarco di 300 profughi curdi nel porto di Riace, decise di dare una speranza alla sua terra investendo su un modello di società multietnica che non cerca solo di proporsi come soluzione al problema dell'accoglienza migranti ma che punta anche a risollevare l'economia di un paesino che era destinato a spopolarsi.
Da quel giorno, in 18 anni, Riace ha accolto circa 6000 richiedenti asilo e oltre 300 di loro hanno deciso di vivere proprio qui riavviando diverse attività del Paese. A rinascere sono stati antichi mestieri e tradizioni che sarebbero andate perdute, come piccole botteghe di artigianato locale, bar, attività agricole. Come ha spiegato il sindaco a Repubblica, a Riace non erano rimasti che 400 abitanti ed è così che Lucano ha deciso di mettere a disposizione dei rifugiati case del centro storico disabitate. Nel 1999 a supporto di questa idea è nata Riace città futura, associazione che gestisce la seconda accoglienza del comune e che crede nella "cultura dell’ospitalità, che trova sempre il modo e lo spazio per accogliere dei forestieri". A premiare il progetto anche la rivista americana Fortune che nella sua classifica dei cinquanta leader più influenti al mondo ha inserito Lucano. Anche il regista Win Wenders ha scelto Riace per girare Il Volo, cortometraggio che si ispira a questo modello di società multietnica.
Un'idea di accoglienza che però non è piaciuta a tutti. L'insegna di città futura porta infatti i segni della ‘ndrangheta, due fori di proiettile come intimidazione. Si sono poi diffuse voci, circolate sul web e alimentate anche da esponenti politici, di presunte irregolarità sulla gestione dei fondi e di sospette pratiche clientelari. Proprio per questo motivo il Ministero dell'Interno potrebbe non confermare bonus e borse lavoro, sostegno finanziario del progetto. Lucano se ciò dovesse accadere è pronto a lasciare l'amministrazione. A supporto del sindaco è nata anche la campagna Io sto con Riace, come riporta anche il Fatto Quotidiano. L'incontro tra il primo cittadino di Riace e il Ministero era fissato per il 5 settembre, ma ancora si aspettano notizie in merito.