“Mia figlia mi disse ‘Ti odio perché sono nata maschio, ma sono femmina’. Mi è crollato il mondo addosso”
La prima volta che Lucia ha percepito che l'identità di genere di sua figlia K. non coincideva con il suo sesso biologico si trovava in auto, incolonnata nel traffico. "Ti odio perché sono nata maschio, ma sono una femmina". Lucia ha sentito la sua bambina di quasi quattro anni, seduta nel soggiolino sul sedile posteriore della macchina, pronunciare quelle parole, e da quel momento è cambiato tutto.
Avrebbe potuto girarsi dall'altra parte, minimizzare, continuare a guidare, pensare alla cena da preparare la sera per gli altri due figli più grandi. E invece Lucia si è fermata un attimo a pensare, e con un po' di paura e tanto amore ha risposto a sua figlia, provando a rassicurarla: "In quel momento mi è crollato il mondo addosso. La guardavo dallo specchietto retrovisore. Ho pensato che se una bimba di quell'età era arrivata a dire una frase del genere significava che stava soffrendo".
"Le ho detto ‘Non ti preoccupare, cerchiamo di capire cosa sta succedendo. Ti voglio bene da maschio, ti vorrò bene da femmina, perché l'importante nella vita è essere brave persone'". A quel punto K. è stata portata da una psicologa a Milano, che dopo alcuni colloqui ha decretato: "Questa è una bambina transgender".
"Io in quel momento non sapevo assolutamente nulla dell'argomento", ci racconta Lucia al telefono. "A casa ovviamente abbiamo fatto un po' fatica a vederla come lei voleva essere vista, e per un po' di tempo abbiamo continuato a chiamarla con il suo vecchio nome. Poi a poco a poco abbiamo cominciato a usare i pronomi femminili. Abbiamo smesso di vestirla con tute blu o azzurre, lei preferiva altri colori".
Dopo la valutazione dello psicologo, Lucia si è rivolta all'ospedale Regina Margherita di Torino, dove le hanno consigliato di aspettare che sua figlia compiesse 16 o 17 anni: "Sostanzialmente per i medici avrebbe dovuto aspettare che le crescessero barba e baffi, e si sviluppasse il pomo d'Adamo. Pensavo che tutto questo avrebbe potuto davvero portare a un disturbo in lei. Vedevo che tra K. e i miei ragazzi più grandi c'era una distanza enorme, nel modo di comportarsi e di giocare. A quel punto ho capito che avrei dovuto cambiare strategia, per trovare una strada più giusta per mia figlia. E così siamo arrivati all'ospedale Careggi di Firenze".
Per K. una scuola inclusiva e la ‘carriera Alias'
Fin da piccolissima K. indossava le scarpe con il tacco della mamma, si metteva per gioco gonne e foulard in testa e amava truccarsi. È sempre stata molto consapevole, ha sempre percepito questa varianza di genere. Ma è sempre stata una bambina serena, perché ha avuto la fortuna di essere accompagnata nel percorso che lei aveva scelto. Anche perché la sua scuola e le istituzioni del suo paese, in provincia di Milano, si sono sempre mostrate aperte, con un approccio veramente inclusivo.
All'inizio K. non si trovava bene con i maschi, non amava i loro giochi. E le altre bambine la tenevano un po' a distanza. Arrivata in terza elementare è stata lei stessa a confidare alla madre di essere stanca di essere chiamata con il suo nome di nascita, e di avere un desiderio: essere chiamata con il nome femminile che lei si era scelta, con l'aiuto dal fratello. "Mi sono preoccupata. Le ho detto ‘Ma sei sicura? Fuori non è come a casa, dove hai un ambiente protetto, con gli zii e con la nonna'. Mi ha risposto che aveva già detto tutto ai suoi compagni di scuola. La sua classe è cresciuta con lei, fin dalla prima elementare. E il merito è stato anche della sua maestra, che ha capito fin da subito la situazione, e ha fatto in modo che tutti i bambini accettassero mia figlia così come è. Le persone che ci circondano hanno fatto la differenza". La scuola nel frattempo si è infatti attrezzata, ha fatto anche dei corsi di affettività, appoggiati dal Comune, e in prima media è stata attivata una ‘carriera Alias', che ha permesso alla ragazzina di modificare il nome anagrafico con quello di elezione nel registro elettronico, cosa che la protegge da eventuali ‘coming out' obbligati, che altrimenti si troverebbe ad affrontare, e che potrebbero esporla ad atti di transfobia.
Raramente le capitano episodi spiacevoli, nella sua vita quotidiana. "Nella tessera sanitaria c'è scritto ancora il ‘dead name'. Quando andiamo a fare gli esami il personale medico si rende subito conto che non c'è una congruità tra ciò che c'è scritto nel documento e ciò che vede. In genere basta solo un mio cenno, mi limito a dire ‘è lei' e non servono altre spiegazioni. Solo una persona una volta è stata sgradevole, e mi ha chiesto ‘come mai?'. Ma il vero problema è che molta gente non sa che esistono creature come K., non sono malate. Hanno bisogno di cure psichiatriche solo quando sviluppano una vera e propria ‘disforia di genere', intesa come malessere, dopo che magari sono state bullizzate".
L'esperienza di K. all'ospedale Careggi di Firenze
Una volta arrivati all'ospedale Careggi i medici hanno parlato con entrambi i genitori, e K. è stata presa in carico da un'equipe multidisciplinare, di cui fanno parte la dottoressa Ristori (psicologa psicoterapeuta), e la dottoressa Alessandra Fisher (endocrinologa). È stata sottoposta a diversi controlli e visite endocrinologiche, oltre a molti colloqui psicologici di psicoterapia, prima di assumere la triptorelina, che blocca temporaneamente lo sviluppo puberale, con la comparsa dei caratteri sessuali secondari. K. ora ha 12 anni, compiuti a gennaio, e ha iniziato a prendere il farmaco a settembre 2023. Nessun effetto collaterale: "L'unico effetto collaterale è che è felice", ci dice sorridendo la mamma. "Sono sicura che alla fine di questo percorso, che durerà qualche anno, mia figlia, intorno ai 15 o 16 anni, vorrà fare la transizione, e inizierà una terapia ormonale sostitutiva. Ma saranno i medici a stabilire quando sarà il momento giusto".
"Ogni volta che andiamo in ospedale ci sono tre o quattro pagine di esami del sangue da fare. Prima di prescriverle la triptorelina le hanno fatto la MOC, la radiografia al polso, ci hanno chiesto il consenso informato. Io giro poi tutta questa documentazione alla pediatra che la segue, e che la inserisce nel suo fascicolo sanitario. Non è che ti somministrano il farmaco come se fossimo al bar, c'è un'equipe medica molto scrupolosa, attenta al benessere della persona", ci racconta Lucia. "È vergognoso che abbiano sospeso le nuove prescrizioni".
Dall'ospedale, che ha ricevuto un'ispezione del ministero della Salute nei mesi scorsi a seguito di un'interrogazione del senatore Gasparri, che aveva denunciato irregolarità, assicurano di non aver disposto alcuna sospensione delle nuove prescrizioni di triptorelina. Interpellato dall'Adnkronos, il Careggi ha fatto sapere che ad oggi "la somministrazione della triptorelina prosegue, anche per i nuovi pazienti" con disforia di genere "che ne hanno bisogno e rientrano nei requisiti" stringenti in cui è previsto l'utilizzo del farmaco bloccante della pubertà. Ma dai riscontri avuti da Fanpage.it, le cose non stanno esattamente così.
È vero che ufficialmente non ci sono stati stop o cambiamenti, e che le terapie già in corso al momento proseguono: ogni piano terapeutico, che corrisponde a un ciclo, prevede tre dosi del farmaco, con un'iniezione ogni 28 giorni. Terminato un ciclo viene eventualmente rilasciato un nuovo piano terapeutico al paziente, che deve poi rifare tutti gli esami e i controlli.
Ma dopo una relazione del ministero, che evidenziava alcune criticità e invitava la struttura ospedaliera a modificare le procedure per il rilascio del farmaco – prevedendo per esempio in tutti i casi la visita di un neuropsichiatra infantile – non sono stati rilasciati nuovi piani terapeutici, né sono stati avviati nuovi percorsi. La situazione comunque, a quanto ci risulta, è in evoluzione e potrebbe sbloccarsi a breve.
L'appello di Lucia: "Dobbiamo credere ai nostri figli, ascoltiamoli di più"
"A un genitore che dovesse cogliere dei segnali che arrivano dal figlio, e che potrebbero far pensare a una varianza di genere, mi sento di dire che dovremmo imparare tutti a fare due cose importantissime: credere ai nostri figli e informarci. Ho ascoltato tanti genitori parlare delle loro esperienze. Il più delle volte si occupano della varianza di genere quando i loro ragazzi hanno circa 14 anni. Però raccontano spesso che i loro figli avevano già denunciato un disagio in passato, durante l'infanzia".
"Io mi sono trovata più volte a sfogarmi e a piangere con mia mamma, perché ho sempre avuto paura di quello che K. avrebbe dovuto affrontare fuori. E purtroppo quello che sta accadendo oggi in Italia non fa altro che confermare le mie paure. Perché ci sono persone che proprio non accettano che non possiamo essere tutti uguali e non accettano la libertà degli altri. Lei dall'aspetto è proprio una ragazza. Oggi ha una lunga chioma di capelli, io le dico che sembra Janis Joplin. Era vero quello che mi aveva detto in macchina da piccola", ci dice Lucia, prima di salutarci.