Maysoon Majidi a Fanpage.it: “In Iran perseguitata, in Italia incarcerata e trattata come una criminale”

Credit: Francesca Moriero
Maysoon Majidi è un'attivista, giornalista e regista teatrale curda-iraniana, da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani, delle donne e dei popoli oppressi in Iran. La sua esistenza è stata profondamente segnata dalla lotta contro le ingiustizie del regime iraniano, che l'ha costretta a fuggire dal suo paese. Dopo un periodo trascorso in Kurdistan iracheno, dove ha proseguito la sua attività di denuncia, è stata costretta a intraprendere un viaggio difficile e doloroso verso l’Europa, con la speranza di trovare finalmente libertà e protezione. Il suo approdo in Italia, dopo una traversata in mare di cinque giorni, però, si è trasformato in un incubo. Anziché ricevere accoglienza e tutela, Majidi è stata invece arrestata con l'accusa di essere una scafista, finendo in carcere dove ha trascorso quasi dieci mesi di detenzione, tra isolamento e scioperi della fame e della sete, prima di essere assolta. La vicenda giudiziaria di Majidi si è basata poi su un'accusa fragile e all'inizio mai verificata: secondo le prime ricostruzioni del Tribunale, che hanno portato al suo arresto, due persone migranti avrebbero dichiarato, tramite una traduzione mai registrata né confermata, che la donna avrebbe distribuito acqua e cibo durante la traversata. Un gesto di solidarietà che, nella narrazione dell'accusa, è stato trasformato in prova di colpevolezza.
A Fanpage.it Maysoon Majidi ha raccontato la sua storia, dal motivo della fuga fino alla detenzione in Italia, denunciando l'ingiustizia subita da chi cerca solo di sopravvivere e lottare per la propria libertà.
Per quale motivo hai dovuto lasciare l'Iran? Di cosa ti occupavi prima di partire?
Ho dovuto lasciare il mio Paese, l'Iran, nel 2019 per via del mio attivismo per i diritti umani, i diritti delle donne e i diritti dei popoli oppressi. Prima di quell'anno, ho collaborato con gruppi di opposizione curda contro il regime iraniano e per questo ho dovuto lasciare l'Iran e spostarmi nel Kurdistan iracheno, per continuare il mio attivismo. In Kurdistan ho iniziato un'attività giornalistica sui social media con due pagine indipendenti: in una riportavo le notizie e le immagini delle proteste in Iran, per cui cercavo di fare da cassa di risonanza, nell'altra pagine facevo invece attività culturale per il popolo curdo.
Oltre all’attivismo, quali altre attività portavi avanti?
Ho una laurea in regia teatrale, ho iniziato a fare teatro da giovanissima. Avevo anche iniziato un master in sociologia, che ho dovuto lasciare quando io e mio fratello Razhan abbiamo dovuto lasciare il Kurdistan iracheno. Non solo, dopo l'uccisione di Mahsa Amini, ho organizzato alcune performance davanti al palazzo delle Nazioni Unite per denunciare la repressione in Iran.
Per quale motivo avete dovuto lasciare il Kurdistan iracheno?
Il governo centrale iracheno aveva permesso all'Iran di colpire con droni e missili balistici il campo dove vivevano i dissidenti politici. Che erano ovviamente civili. Non solo, con un accordo tra Iran e Iraq, il governo iracheno aveva smesso di rinnovare i permessi di soggiorno per i dissidenti. Non avevamo insomma più la possibilità di rimanere e ci sentivamo in pericolo.
Come siete arrivati in Turchia e cosa è successo durante il viaggio?
Abbiamo lasciato il Kurdistan iracheno insieme ad altri rifugiati. Eravamo circa 15 persone, tra cui famiglie perseguitate. Arrivati in Turchia siamo stati truffati: ci hanno rubato i soldi che servivano per pagare la traversata. Tutti gli altri hanno trovato soluzioni, mentre io e mio fratello siamo rimasti bloccati fino al 27 dicembre, cercando di raccogliere il denaro per ripartire. Non avevamo alcuna possibilità di tornare indietro. Da una parte ricevevamo minacce dall'intelligence iraniana, dall'altra dovevamo scappare dalla polizia turca per non essere rimpatriati.
Quando siete partiti per l'Italia?
Siamo partiti il 27 dicembre su una barca di dieci metri con 77 persone a bordo. Il viaggio è durato quattro notti e cinque giorni. I primi tre giorni i passeggeri stipati sottocoperta non potevano neppure salire per prendere aria. Il bagno, l'unico che avevamo, era guasto dal primo giorno: le persone che ne avevano bisogno erano costrette a spostarsi in una stanza molto piccola; si urinava all'interno di una busta, che poi veniva passata mano per mano per poi essere buttata in mare, da chi stava sopra. È stato un viaggio molto difficile: il sistema di pompaggio dell'acqua era difettoso e l'acqua entrava spesso in barca, a turno, con una piccola bottiglietta, le persone la raccoglievano in un secchio e la buttavano fuori. Piu volte il motore della barca ha smesso di funzionare e noi per ore siamo rimasti in mezzo al mare senza poterci muovere. Sono dettagli, ma lo dico per dare una giusta fotografia di ciò che è una barca con persone migranti dentro, una realtà completamente diversa da altri tipi di imbarcazione.
Che impatto ha avuto su di te il viaggio, anche dal punto di vista fisico?
Molte donne affrontano il viaggio con il ciclo mestruale. Io ho avuto le mestruazioni il 29 dicembre, due giorni dopo che ho iniziato la traversata. Avevo con me solo uno zaino con lo stretto necessario, ma quella notte non sono riuscita a trovarlo perché sotto coperta c'era confusione, persone ammassate e zaini ovunque. Non solo, sia io che mio fratello vomitavamo continuamente per il mal di mare e le condizioni igieniche erano davvero disumane. Poi, in una situazione del genere ci sono sempre molte tensioni tra i passeggeri, personalmente ho avuto delle accese discussioni con una persona che non mi permetteva di salire sopra per prendere aria. Non tutti infatti erano costretti a restare sotto coperta: dal primo giorno c'erano persone che avevano la libertà di stare sopra e prendevano aria, come se godessero di privilegi. Non solo, applicavano il loro potere sugli altri passeggeri.
Quando sei arrivata in Italia ti aspettavi di ricevere protezione?
Si, pensavo di essere finalmente arrivata in un posto sicuro, un paese democratico. Pensavo di non dover più preoccuparmi delle minacce subite. Invece sono stata arrestata per reato di favoreggiamento dell'immigrazione irregolare e considerata quindi una scafista. È stata una grande sorpresa per me.
E tuo fratello? Era al corrente del tuo arresto?
Sono stata portata via senza che nemmeno mio fratello, che era sempre stato con me, fosse avvertito. Siamo stati separati a Crotone: c'era uno spazio, una sorta di parcheggio, dove venivano portate le donne e un altro dove venivano portati invece gli uomini. Da quel momento mio fratello non ha più saputo nulla di me. Solo molto tempo dopo, quando sono stata assolta, ho scoperto che non solo mio fratello aveva cercato di alzare la voce e chiedere la mia scarcerazione, ma lo stesso avevano fatto molti passeggeri della barca con cui avevo fatto la traversata. Erano andate a chiedere dove fossi finita, nessuno però ha dato loro risposte.
Quando hai saputo delle accuse a tuo carico?
La documentazione, con la traduzione di tutte le accuse a mio carico, mi è stata consegnata solo dopo più di tre mesi di carcere. Solo allora ho potuto finalmente leggere, in una lingua comprensibile per me, di cosa ero accusata e perché ero stata arrestata. Dopo 5 mesi e 17 giorni di detenzione, ho avuto il primo interrogatorio all'interno del carcere. Quando ho saputo che due persone sulla barca mi avevano accusata di essere una scafista, mi chiedevo continuamente com'è possibile che, tra 77 passeggeri, siano state ascoltate solo quelle due voci e nessun altro. Durante il processo ho scoperto poi che quelle dichiarazioni non erano state né registrate né filmate, non era insomma possibile sapere se ciò che avevano detto corrispondesse a quanto tradotto dall'interprete sul campo. Non solo chi mi ha accusato è stato lasciato andare ed è diventato irreperibile, non sono mai state confermate le loro dichiarazioni in aula. Dopo che la notizia del mio arresto è diventata pubblica, queste persone hanno poi contattato diverse organizzazioni per cui lavoravo in Iran, dichiarando di non avermi mai accusata e che appunto le loro parole erano state mal interpretate.
Come hai vissuto i giorni in carcere?
In carcere mi sentivo come se nessuno riuscisse a sentire la mia voce. Ho fatto diversi scioperi della fame, a volte anche della sete. Il primo mese avevo un avvocato d'ufficio che però non mi ha mai contattata. Non avevo alcun interprete che parlasse la mia lingua, né un mediatore culturale. Non avevo notizie di mio fratello e non sapevo che alcune persone care fuori cercavano di avere informazioni su di me, senza ricevere alcuna risposta.
Come sei riuscita a trovare un avvocato che potesse aiutarti?
Dopo diversi giorni di sciopero della fame e della sete, ho avuto un attacco di panico, ho perso i sensi e mi hanno quindi portata dal medico del carcere. A quel punto ho chiesto all'ispettrice e al direttore di avere un interprete che potesse tradurre le mie parole. Dopo alcuni giorni, tramite una videochiamata su Skype, ho finalmente parlato con una signora che parlava italiano e inglese. È stata lei a consigliarmi di andare all'ufficio matricola e chiedere di cambiare avvocato, suggerendomi l'avvocato Gian Carlo Liberati, che è stato poi colui che mi ha difeso, che aveva esperienza con persone accusate in base all'articolo 12 e poteva aiutarmi a difendermi.
Quando hai potuto parlare con la tua famiglia?
Dopo ben 77 giorni, ho avuto la possibilità di parlare con uno zio che vive in Germania. È stata la prima volta che mi è stato permesso di contattare un familiare. Prima di allora non avevo l'autorizzazione a chiamare nessun membro della mia famiglia o degli amici. A questo si aggiunge che mi venivano comunicate le date delle udienze, e poi venivano rimandate senza spiegazioni.
Come hai vissuto l'attesa delle udienze?
Ho avuto l'impressione che fossero rinvii politici. Secondo le accuse, durante la traversata potevo muovermi liberamente sulla barca, distribuivo acqua e cibo e avevo con me un cellulare e dei soldi. Questo bastava per considerarmi una scafista. Il mio cellulare era stato però sequestrato prima della partenza, come avviene per tutti i passeggeri e i soldi che avevo con me erano solo 150 euro, come tanti altri passeggeri. Non solo, la documentazione, con la traduzione di tutte le accuse a mio carico, mi è stata consegnata solo dopo più di tre mesi di carcere. Solo allora ho potuto finalmente leggere, in una lingua comprensibile per me, di cosa ero accusata e perché ero stata arrestata.
Quando sei stata assolta?
A febbraio il Tribunale ha riconosciuto la mia innocenza e la mancanza di prove a sostegno delle accuse contro di me. Quel giorno, ho recitato una poesia di Mahmoud Darwish, poeta palestinese, che dice: "Vengo da una terra che ha tutto. Manca solo la libertà".
Hai mai sentito discriminazione durante le udienze?
Sì, quando hanno esaminato le foto nel mio cellulare. Erano foto normali di me e mio fratello nel breve periodo che abbiamo passato in Turchia, ma sono state usate per insinuare che non fossi una rifugiata perché secondo l'accusa i rifugiati devono essere poveri e affamati.
In Italia potrebbe essere confermato un decreto, il cosiddetto ddl Sicurezza, che potrebbe criminalizzare anche lo sciopero della fame per i detenuti. Cosa ne pensi?
Penso di questa legge la stessa cosa che penso riguardo al reato di favoreggiamento, cioè la collaborazione con gli scafisti. Io ho detto più volte, anche in tribunale, che non avevo nemmeno la forza per alzarmi e aiutare gli altri a distribuire acqua e cibo, ma se avessi potuto, l'avrei fatto. Sulla barca c'erano bambini assetati, persone in difficoltà, e se avessi avuto dell'acqua e la possibilità di aiutarli, lo avrei fatto senza alcun dubbio.
Questo è lo spirito umanitario, così si deve fare. Aiutare gli altri non può essere considerato un reato. Lo stesso vale per lo sciopero della fame. In carcere una persona detenuta non ha nessun altro strumento per protestare, se non il proprio corpo. Lo sciopero della fame è una delle forme di lotta non violenta più antiche e riconosciute, fa parte dei diritti fondamentali. Criminalizzarlo significa andare contro i principi della difesa dei diritti umani e della libertà di espressione. Se una persona pensa di aver subito un'ingiustizia e vuole protestare pacificamente, deve poter avere il diritto di farlo.
La questione immigrazione è ormai all'ordine del giorno non solo in Italia, ma è considerata ormai priorità anche in molti altri paesi dell'Europa. Cosa ne pensi?
Intanto voglio dire che l'Italia è solo una porta di accesso per i rifugiati, non la destinazione finale. La maggior parte delle persone che arrivano in Italia in realtà non vogliono restarci, ma vogliono proseguire il viaggio verso altri paesi europei. Le politiche migratorie coinvolgono tutta l'Europa, ma i governi dovrebbero collaborare per trovare soluzioni comuni, invece di costruire muri o criminalizzare chi fugge. Quello che sembra mancare è il rispetto delle basi su cui si fondano le democrazie europee. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sancisce il diritto di ogni essere umano, indipendentemente dal colore della pelle, dalla provenienza, dalla religione o dal genere, di vivere in libertà e non essere perseguitato. Oggi sembra che molti governi non rispettino più questi principi fondamentali.
Credi sia possibile fermare chi fugge da guerre e persecuzioni?
Penso sia impossibile e irrealistico. Le persone continueranno sempre a cercare un posto dove vivere in libertà e salvarsi la vita. Si può anche temere la mescolanza delle culture per ragioni nazionaliste, ma non si può chiedere a chi sta rischiando la vita di non fuggire. Quello che si può fare è organizzare questi spostamenti in modo più funzionale, dando la priorità a chi si trova in una situazione di emergenza totale. È necessario creare dei metodi organizzativi per gestire meglio l'immigrazione, senza però strumentalizzarla politicamente. Le guerre e le dittature ci sono sempre state, come i loro dittatori, e finché esisteranno, le persone continueranno a scappare. Non è possibile cancellare i rifugiati dal mondo.