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Matteo che fai, lo cacci?

Mineo silurato dal Pd, tredici senatori autosospesi e decine di falchi tiratori sulla responsabilità civile dei giudici: è già finita la luna di miele tra Renzi e il partito? Ed è con epurazioni, inciucetti e strategismi che si può pensare di cambiare la Costituzione?
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Quando il grande manovratore non c'è, il treno delle riforme deraglia, o quasi. Quando si spengono i riflettori e cala la tensione, è il momento dei falchi e degli avvoltoi. Così, in due giorni, la macchina da guerra renziana, che aveva fatto il pieno di consensi alle Europee e portato a casa una serie di risultati di grande impatto (sulla valutazione politica il discorso è più complesso), ha dovuto incassare due stop più o meno inattesi: l'agguato dei franchi tiratori sulla responsabilità civile dei giudici e i precari equilibri interni alla Commissione Affari Costituzionali del Senato (che si appresta ad esaminare il pacchetto di riforme del Governo).

Due questioni che la maggioranza ha affrontato in maniera decisamente discutibile. Sulla responsabilità civile dei giudici, Renzi e compagni hanno manifestato la volontà di porre rimedio al Senato, legittimando implicitamente la valenza del bicameralismo perfetto (che in questo caso consentirà di riparare a quello che si considera un errore) e mostrandosi fin troppo fiduciosi sulla tenuta della risicatissima maggioranza a Palazzo Madama (dove certo, l'astensione dei 5 Stelle avrebbe un altro valore, ma non sono escluse altre sorprese).

Sul caso Mineo, invece, si è fatto di peggio, sostituendo il senatore non ortodosso con il capogruppo Zanda in Commissione (dopo che Per l'Italia aveva fatto lo stesso estromettendo l'ex ministro Mauro), al fine da blindare il percorso preliminare della riforma del Senato. La decisione, presa dall'Ufficio di Presidenza del Pd nel complesso di un rimpasto generale (per "evitare i doppi incarichi"), oltre ad essere stata "giustificata" in maniera discutibilissima (seguendo il contorto ragionamento della necessità di "rappresentare il partito in Commissione" e relegando la possibilità di esprimere il dissenso "durante il voto in Aula"), determina però un pericoloso precedente. Se non lo è da un punto di vista formale, infatti, quella di Mineo è una vera e propria epurazione dal punto di vista politico. Che pone interrogativi sul significato e sulla funzione del Parlamento e sul ruolo dei parlamentari, nonché sui meccanismi di tutela della democrazia interni al partito.

Lo spiega un irritato Civati in maniera esemplare:

Ecco, che allora, nel procedere spediti […] si sono voluti eliminare gli ostacoli, cioè i senatori non disponibili a sacrificare le proprie idee alla volontà – incontestabile – del governo. Non disponibili, cioè, a rinunciare alla funzione di controllori del governo (anziché di controllati dal governo).

[…] Non disponibili – diciamo ancora e soprattutto – a sacrificare la propria funzione di rappresentanza della nazione alla logica di appartenenza partitica. Già, perché, negli ultimi giorni, abbiamo dovuto sentire anche questa: “ma chi rappresenta Mineo?”. Semplice: la nazione. Come tutti noi che abbiamo avuto l’onore di essere eletti. Magari con una brutta legge elettorale, cosa che dovrebbe spingere a cambiarla e tornare a votare (come chiedo da un anno), ma che non toglie che, finché siamo in Parlamento – come ha detto la Corte costituzionale – rappresentiamo la nazione, cioè tutti i cittadini. Che non è poco. E per questo dobbiamo controllare il governo, che invece non lo ha eletto proprio nessuno.

Il punto è proprio questo: l'inesistenza del vincolo di mandato si pone come garanzia democratica in senso stretto ed assoluto. Il divieto di mandato imperativo, per dirla ancora con Civati, sussiste "proprio perché i parlamentari non devono essere soggetti a ricatti e ritorsioni, neppure (anzi, direi soprattutto) dal proprio partito". È lo stesso discorso fatto più volte a proposito della particolare concezione della pratica democratica dei 5 Stelle e delle "espulsioni pilotate dai vertici del Movimento", critica peraltro condivisa dalla stragrande maggioranza del Partito Democratico. Poi, concettualmente, è proprio nel solco del rifiuto dell'ortodossia e nella rivendicazione del pensiero critico, che si è mosso Renzi quando era minoranza nel Pd e addirittura quando era "solo" segretario del Pd (qualcuno ricorda le bordate al Governo Letta, vero?). Cambiare idea ora, per convenienza o strategia, è indice di una preoccupante incoerenza. Il che, per chi si appresta a cambiare l'architettura istituzionale e costituzionale del Paese, non è proprio il massimo della garanzia.

PS: Poi, sia detto per inciso, il "potere di veto" di cui parla Renzi c'entra poco e nulla. È stato lo stesso Presidente del Consiglio a parlare di riforme da fare ad ampia maggioranza, di un percorso comune e condiviso con le altre forza politiche (ricordate l'incontro del Nazareno). Ora "il problema" del 15 a 14 il Commissione sarebbe Mineo? E, soprattutto, davvero qualcuno crede che, senza un intervento degli amici di Forza Italia, questa riforma possa passare al Senato?

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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