

Maria Airaudo ha cento anni, e vive in un piccolo angolo delle valli piemontesi. A diciannove anni, mentre il mondo cedeva all’ombra nera del nazifascismo, lei scelse la strada del coraggio.
Nata nel 1924, Maria Airaudo è ancora capace di raccontare e di ricostruire. L’ho incontrata a casa sua, con la mia telecamerina in mano, un anno fa: “Sì, sono del 1924, ma va bene così, non vorrei mai tornare a quei tempi”.
La prima cosa che mi spiega è questa: “Il ‘voi’ non andava bene, il ‘lei’ neanche perché non eravamo signori, perciò fra partigiani garibaldini avevamo scelto di darci del ‘tu’, tutti uguali, dalla testa alla coda”.
Ci mettiamo seduti?
Meglio, così facciamo due chiacchiere.
Se avesse qui davanti la Maria quando aveva 18 anni, cosa le direbbe?
Le direi di fare come ho fatto, non me ne sono mai pentita, anche se ho pagato caro. Presi una pallottola esplosiva nel polmone, di cui ho pagato le conseguenze per tutta la vita, ma non me ne sono mai pentita, neanche oggi.
Facciamo un passo indietro: non vi siete sempre chiamati ‘partigiani’
Prima eravamo i ‘ribelli di Stato'.
Perché vi eravate ribellati?
Perché eravamo da 20 anni sotto il regime fascista, dove nessuno poteva opporsi, dovevamo soltanto obbedire. Noi volevamo pace e pane.
Come era composta la sua famiglia di origine?
Eravamo in sei in famiglia, più papà e mamma facevamo otto. Avevamo una mucca, con quattro mammelle. Ci sfamavamo due persone per ogni mammella.
Oggi fa ridere, però a quei tempi era una cosa seria.
A scuola è andata?
Io a otto anni ho finito la quarta elementare, poi sono andata a lavorare.
Si ricorda l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia?
Ci hanno fatte andare nel cortile per ascoltare il discorso del Duce. Ricordo che era già verso sera, quando ha iniziato a parlare. Mi ricordo le parole: “Combattenti di cielo, mare e terra, ascoltate: la guerra è dichiarata contro la Francia e l’Inghilterra”.
Io ho visto tanti compagni piangere forte, perché ognuno di noi aveva degli amici in Francia, vivevamo al confine, per noi era normale andare a fare una passeggiata a Gap, per esempio. Portavamo pane e salame, un bicchiere di vino, cantavamo tutti insieme, perché il rapporto umano non ha un limite, un confine di Stato.
Come avete conosciuto i nazisti?
Li abbiamo conosciuti perché depredavano le case, il primo impatto è stato quello. Hanno portato via di tutto, dal pane ai soldi, la frutta, tutto. Non erano soltanto nazisti a depredare le case, con loro c’erano anche i fascisti.
I fascisti depredavano le case?
Certo. Mi ricordo uno di quei presunti ‘tedeschi’ che ci sbatté fuori casa urlando “Fora da sì”, una frase prettamente locale, erano i nostri primi vicini di casa, insieme ai tedeschi!
Quando ha deciso di diventare partigiana?
La prima volta che sono arrivati i nazisti hanno fucilato venti uomini, senza nessun motivo, ad esempio a mio cugino di primo grado gli hanno sparato mentre stava attraversando la strada per andare a casa.
Ne uccisero venti, a caso, per terrorizzare la popolazione, perché non aiutasse i partigiani. E io da quel momento sono diventata staffetta partigiana.
Ricorda bene quei giorni?
Ricordo tutto, anche se per vivere devo cercare di non pensarci. A san Rocco c'era un mucchio di cinque morti, lasciati in terra per giorni. Il più giovane ucciso aveva 17 anni, ucciso per impiccagione, da morto teneva ancora un pezzo di pane stretto nella mano sinistra.
È da quel momento che scatta in lei la decisione di fare qualcosa.
Ho fatto la partigiana senza rendermi conto che stavo facendo la partigiana. Era una cosa giusta e l’ho fatta, il nome “partigiani” è arrivato dopo.
Cosa sentiva?
Ci interessava impegnarci per ottenere la pace. Basta con la guerra, basta con la fame.
Qual era il suo ruolo?
Andavo in bicicletta, trenta chilometri al giorno, avevo un permesso speciale per il lavoro e ne approfittavo per trasportare di tutto: documenti e armi.
Dove li nascondeva?
Nel sottofondo della borsa, oppure addosso. I documenti di solito li nascondevo in un sacchetto che mi ero cucita all’altezza del seno, oppure li infilavo nelle mutande, avevo fatto una sacca.
Lei ha mai avuto paura?
Tanta, molte volte. Però non mi sono mai arresa, mai.
Mi racconta una volta in cui ha avuto paura?
Tante volte, ma certo quando mi catturarono e poi mi spararono è stata la più brutta, perché aspettare che ti sparino, con un ordine di fucilazione, è peggio che prendere una pallottola durante un combattimento. Lasciamo stare, è troppo triste da raccontare. La cattiveria umana non ha limiti.
Le è mai capitato di ritrovarsi di fronte a un fascista che aveva conosciuto durante il periodo della Resistenza?
A Torino, nel servizio pubblico, ho incontrato uno che effettivamente era un fascisa, aveva partecipato a un rastrellamento, ci siamo riconosciuti e io gli ho detto: “Noi due forse ci siamo già visti”, e lui mi ha risposto: “Può darsi. Buongiorno”, e se ne è andato. E ha fatto bene ad andarsene, perché se avesse detto una parola in più, non so se non lo avrei aggredito.
Maria, ho un’altra domanda, ci pensi bene: c’è ancora speranza?
Certo, la speranza non ci deve abbandonare mai. Se non ci fosse stata la speranza di tornare alla pace, io non avrei fatto la staffetta.
Lei non l’ha mai persa la speranza?
Mai, neanche oggi.
