Il Movimento 5 Stelle potrà allearsi a livello comunale con i partiti tradizionali e applicherà in modo integrale la regola del “mandato zero”, ovvero considererà nullo ai fini del conteggio complessivo il primo mandato svolto come consigliere comunale (o di municipio), indipendentemente dalla durata della consiliatura. È questo il risultato del blitz di Ferragosto sulla piattaforma Rousseau, con gli iscritti certificati che hanno votato a favore della proposta del Capo Politico del Movimento 5 Stelle Vito Crimi (la cui reggenza si è allungata in modo considerevole causa Covid-19 e relativo mutamento dei rapporti di forza interni alla maggioranza). Poco meno di 50mila persone hanno ratificato l’ennesimo passaggio di un percorso che ormai è sotto gli occhi di tutti e che è già a uno stadio piuttosto avanzato: la trasformazione del Movimento 5 Stelle in forza politica tradizionale nelle forme e nei metodi.
Chiariamoci subito: il voto di oggi non ha i crismi della svolta epocale, perché in buona sostanza si trattava di porre rimedio a una norma scritta male (quella sul “mandato zero”, che non si applicava ai consiglieri il cui mandato fosse stato interrotto) e di mettere fine all’ipocrisia delle alleanze sui territori (che senso aveva limitarli a liste civiche che in gran parte dei casi sono copertura per i partiti tradizionali?). E può essere interpretato come norma “ad personam” per la Raggi solo se si ragiona in un orizzonte di tempo limitato, sottovalutando invece il peso che avrà la possibilità per i consiglieri di interrompere il mandato per candidarsi ad altre cariche elettive. Però rappresenta una conferma chiarissima della direzione che ha ormai inesorabilmente preso il MoVimento 5 Stelle: quello della forza di tipo tradizionale per struttura, organizzazione, prassi e pratica politica. Un percorso già segnato, come vi abbiamo raccontato, quando il gruppo dirigente ha scelto la strada dell’istituzionalizzazione, diventando non solo “forza di governo”, ma forza garante dello status quo e della stabilità dell’intero sistema. Una svolta incompatibile con il M5s delle origini, che prevedeva la messa in discussione di idee, progetti, alleanze e orientamenti, oltre che la totale inessenzialità dei singoli leader.
Non è un caso che, nel momento di massima crisi identitaria e ideologica (perché di questo stiamo parlando da mesi, non dimentichiamolo), il gruppo dirigente decida di picconare ulteriormente due dei baluardi storici della pratica del M5s delle origini: lo “splendido isolamento” (caduto solo quando Di Maio e sodali non riuscirono a resistere alle sirene di governo e si inventarono l’alleanza con Salvini per “applicare il programma”) e il “ruolo del portavoce”, con tutti gli annessi e connessi (restituzioni, politica come servizio, eccetera). Quest’ultimo punto crediamo meriti una considerazione ulteriore. In passato la figura del “cittadino – portavoce” è stata oggetto di ironia e disapprovazione da parte dei sostenitori delle altre forze politiche. Eppure, si trattava di un concetto cardine dell’intero progetto del Movimento, una delle basi della “rivoluzione” di Grillo e Casaleggio: l’idea cioè che il singolo fosse essenziale solo in rapporto al collettivo, che le istanze e le idee fossero sempre più importanti delle individualità e che il personalismo e il leaderismo fossero concetti della vecchia politica. Anni e anni nelle istituzioni, anni di compromessi e tradimenti, anni di risultati e delusioni, hanno lentamente incrinato questo mito fondativo, che però ha sempre resistito formalmente dietro la locuzione “il vincolo del doppio mandato non si tocca”. Oggi l'ennesima abiura, tristemente passata quasi sotto silenzio.
Il combo con il via libera alle alleanze su base locale, dopo aver sdoganato quelle su base regionale e rafforzato l'asse di governo col PD, è più di un segnale, è una certezza: la direzione è quella del lavoro per costruire una solida e ben definita piattaforma politico -programmatica, affidata a una leadership forte, in grado di portare a compimento la trasformazione del M5s in un partito tradizionale e di mettere definitivamente in soffitta le suggestioni movimentiste, determinando al contempo un chiaro collocamento politico, che vada al di là delle fluttuazioni del vento. Basta con la politica dei due o tre forni, del "si fa con chi ci sta", ma una scelta di campo di una forza che intende dare il tempo alla propria classe dirigente di crescere, strutturarsi e prepararsi. Qualunque sarà la "fazione" vincente agli stati generali, è difficile che questo percorso si inverta e si torni alle origini: potrà cambiare la collocazione politica, certo, ma non la prassi politica, la centralità dei singoli parlamentari, le pratiche comunicative, il rapporto con i territori.
Insomma, il voto a stragrande maggioranza di oggi (l'80% si è espresso a favore del primo quesito, il 60% a favore delle alleanze) è segnale chiaro di come quell'idea di purezza originaria del fare politica e dell'impegno personale sia già un lontano ricordo, sostituita magari da una concezione diversa: quella della politica come "sangue e merda".