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Manconi: “Bisogna organizzare la resistenza, anche se si è minoranza bisogna combattere”

Intervista all’ex senatore Luigi Manconi: “Il Partito Democratico ritengo che abbia un futuro gramo, molto gramo. La crisi credo non riguardi solo il Pd, ma la dichiarazione di sconfitta vale per l’intera sinistra”. E sul futuro: “Bisogna organizzare la resistenza con la “r” rigorosamente minuscola, anche se minoranza bisogna combattere”.
A cura di Valerio Renzi
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Nell'ultima legislatura è stato quasi un ospite nel gruppo del Partito democratico, per poi non essere ricandidato nella nuova. Cosa pensa del futuro della principale formazione politica di centrosinistra del Paese?

Sono stato eletto nelle liste del Pd, e stando all'interno del gruppo parlamentare del Pd mi sono comportato con l'indipendenza che ritenevo necessaria per poter svolgere la mia attività secondo i miei principi. Ma non ho mai formalizzato una separazione dal Pd, né si è mai rivelata necessaria: sono arrivato al punto di non votare più di una volta la fiducia su provvedimenti del Governo, commettendo dunque l'atto di ribellione più sovversiva immaginabile all'interno di una disciplina parlamentare, ma questa mia scelta non ha comportato nessuna forma di sanzione da parte del gruppo del Partito. Più di una volta mi è stato chiesto di riflettere sulle mie scelte, mi è stato chiesto di discuterne, ma questo non ha mai comportato una coercizione all'ubbidienza né una sanzione di alcun tipo per ottenerla.

Per quanto riguarda la domanda sul Partito democratico ritengo che abbia un futuro gramo, molto gramo. Ma credo non riguardi solo il Pd ma l'intera sinistra. I risultati elettorali hanno penalizzato con ferocia il Partito democratico ma anche la formazione nata da una scissione del Partito democratico e dall'incontro con un altra formazione, cioè con Sinistra Italiana. Parlo ovviamente di LeU. Quindi la dichiarazione di sconfitta vale per l'intera sinistra, anche perché il risultato non totalmente fallimentare della terza formazione, cioè di Potere al Popolo, è un risultato di mera testimonianza e non credo possa avere uno sviluppo che la sottragga a questo destino minoritario.

Una sconfitta figlia di una crisi di decenni destinata a durare almeno un altro decennio.

Si è battuto per dare all'Italia una legge sulla tortura, il cui contenuto è stato radicalmente modificato tanto da indurla a ritirare la firma dal provvedimento. Una sconfitta o una parziale vittoria nel suo percorso umano e politico?

Non risponderei in questi termini. Mi sono mosso all'insegna di una formula elementare: meglio questa che niente, meglio uno straccio di legge che nessuna legge. Nulla di positivo oltre questa constatazione di un piccolissimo passo avanti realizzato. Il problema è che questa legge parte dallo stravolgimento di quello che è il senso della Convenzione Onu contro la tortura e via discendendo, ovvero che la tortura deve essere definita come un reato proprio, imputabile a chi esercita un pubblico potere. La tortura di cui stiamo parlando, e che così deve essere qualificata per essere combattuta adeguatamente, nasce da un abuso del potere legittimo. La tortura è il comportamento illegale che nasce dall'esercizio di un potere legale. Il poliziotto che ha legalmente fermato una persona per strada, il secondino che legalmente detiene una persona in carcere, medici che effettuano un trattamento sanitario, nel momento in cui a partire dall'esercizio legittimo del potere di limitare la libertà altrui so commettono degli abusi, lì si ha la tortura. Tutto questo non c'è nella legge italiana, il cui testo è stato stravolto durante l'iter di approvazione.

Il film sulla vicenda di Stefano Cucchi sembra aver fatto esplodere nuovamente grande attenzione e bisogno di discutere di questi temi. Subito dopo sono arrivate le importanti novità sul fronte processuale, con il racconto del pestaggio da parte di un carabiniere che ha anche accusato due colleghi. "È caduto il muro", ha commentato la sorella Ilaria. Esiste un problema di cultura democratica negli apparati dello Stato e nelle forze dell'ordine?

Eccome se esiste! In Italia le forze dell'ordine non hanno mai portato a compimento un processo di democratizzazione piena per un motivo molto semplice: esistono all'interno delle forze di polizia vere e proprie sacche di autoritarismo, veri e propri segmenti dove si esercita l'abuso, aree non trasparenti e un deficit molto consistente di formazione democratica. Quando periodicamente si scopre che un carabiniere o un poliziotto hanno la suoneria del loro telefonino dove riecheggia ‘Faccetta Nera', l'episodio in sé è praticamente insignificante. Ciò che non è insignificante è che simili comportamenti conoscono una sorta di tolleranza da parte delle gerarchie che gli danno poco rilievo, perché non è stato sviluppato un discorso adeguato, sul carattere democratico dell'attività di ordine pubblico. All'origine c'è un clamoroso equivoco sulla funzione delle forze dell'ordine. La prima ipotesi è sempre che il ruolo del poliziotto o del carabiniere sia quello della repressione di chi trasgredisce, di chi commette un reato. Ma non dovrebbe essere così. Il primo compito delle forze dell'ordine è la tutela del cittadino dalla illegalità. La tutela del cittadino dall'illegalità, vuol dire certo la repressione di chi minaccia il cittadino, i suoi beni, la sua integrità, la sua libertà, ma vuol dire che le forze dell'ordine deve vedere nel cittadino un soggetto prima di tutto da tutelare. Invece la prassi, la formazione, la storia degli apparati dello Stato induce in genere un rapporto tra forze dell'ordine e cittadino tutto fondato sul sospetto: si pensa al cittadino come un probabile e potenziale nemico, laddove il cittadino è invece un individuo da tutelare fino a prova contraria. C'è un'incapacità di riconoscere il proprio ruolo all'interno di una società democratica da parte di chi indossa una divisa. Al punto che in un paese dove il nostro, dove il garantismo è un cultura minoritaria, esso è ancora più esile e meno diffuso proprio all'interno degli apparati di polizia che non considerano mai come prioritaria nel rapporto con il cittadino la tutela dei suoi diritti.

Ha ragione a sottolineare che il garantismo una cultura minoritaria, che non sembra andare di moda in nessun schieramento politico. Perché c'è questo deficit di garantismo?

La carenza di cultura garantista va considerata a partire dal cuore del problema: l'incapacità della classe politica in primo luogo, ma anche di chi ha la responsabilità di informare e formare l'opinione pubblica, dei militanti politici e così via, di esercitare i principi del garantismo a prescindere, incondizionatamente, senza guardare la figura di chi o coloro nei confronti dei quali il garantismo va esercitato. Garantismo vuol dire che ci sono una serie di limiti, di garanzie appunto, di limiti e regole che riguardano l'individuo a prescindere, incondizionatamente, da tutti i tratti che lo connotano ulteriormente. La prima difficoltà ad applicare il garantismo è quello di applicarlo a prescindere dal curriculum penale, la seconda difficoltà è di applicare il garantismo a prescindere dalla posizione politica del soggetto che deve essere garantito. Faccio degli esempi che non sono per me particolarmente scandaloso o radicali: il garantismo è valido o no nei confronti di Toto Riina? Nei confronti di Silvio Berlusconi? O rispondi sì a entrambe le domande o la tua cultura garantista è deficitaria, fine del discorso. Queste domande possono essere rovesciate a seconda dei valori dell'interlocutore e del suo punto di vista: il garantismo vale per l'immigrato irregolare? E ancora: va applicato nei confronti della brigatista condannata per gli omicidi di Sergio D'Antona e di Marco Biagi Nadia Desdemona Lioce? Se non rispondi sì a tutte queste domande semplicemente non sei garantista, perché il garantismo non ammette eccezioni alla sua applicazione.

Il 41 bis rappresenta un vulnus nel nostro sistema di diritto?

Chi pensa che per punire i mafiosi si possa derogare dai principi universali del sistema penale, in quanto sono mafiosi, apre una falla proprio in quella cultura garantista che dovrebbe garantire i diritti di chiunque. Il 41 bis è un istituto carcerario al limite della legalità costituzionale. Non ne chiediamo l'abrogazione perché lo statuto penale di coloro che ne sono sottoposti, richiede effettivamente una sorveglianza particolare. Ma se questa attenzione particolare diventa accanimento superfluo, questo non è più legale. Il 41 bis ha uno e un solo scopo: quello di impedire i contatti tra i membri di organizzazioni criminali o terroristiche detenuti, e i loro associati all'esterno. Per questo descriverlo come carcere duro è sbagliato: il 41 bis deve rispondere solo a questa condizione, non affliggere ulteriormente la condizione di privazione della libertà di chi vi è detenuto. A Nadia Lioce viene impedito di tenere in cella un numero di libri superiore a cinque, questa ad esempio è una scelta illegale che non ha nessuna relazione con lo scopo del regime carcerario di 41 bis a cui è sottoposta. Chi non protesta contro questa scelta perché la destinataria è una brigatista e un'assassina, beh semplicemente non è garantista.

Il riformismo italiano, oggi tanto bistratto, negli anni '60 e 70 ha realizzato delle riforme avanzatissime, dalla scuola alla Basaglia, sotto la pressione della mobilitazione sociale, politica e sindacale. Oggi sembra essere completamente bloccato: nessuno ha risposto alle istanze presentate dal basso dal movimento no global agli ultimi movimenti studenteschi…

Il sommovimento che attraversa la seconda metà degli anni '60 fino alla seconda metà dei '70 è stata davvero una cosa imponente. Io spiego sempre che parlare di "un'intera generazione" che si ribella è inesatto, parliamo sempre di avanguardie, di minoranze che in quelle condizioni particolari riescono a proiettare le loro istanze su tutta la società. Solo qualche settimana fa in un articolo raccontavo la storia di un '68 minore, quello che ad esempio vedeva i sacrestani mobilitarsi in una vertenza sindacale, organizzandosi in comitati di lotta. Un episodio al limite del folklore, ma un dettaglio che spiega la capacità di proiezione sull'intera società di alcune avanguardie arriva a provocare la mobilitazione dei sacrestani, gli aiutanti dei parroci, i più subalterni e vessati nella gerarchia ecclesiastica. Successivamente questo tipo di capacità non è più ricomparsa, anche se abbiamo visto altri fenomeni di mobilitazione politica e sociale importanti. La Legge Basaglia aveva un contenuto radicale e sovversivo ma viene approvata, il potere si arrende senza resistere, i democristiani al governo la votano e la portano all'approvazione pur subendola.

Il '68 cinquant'anni dopo, con le sue istanze egualitarie, è ancora oggi l'obiettivo polemico sia delle forze della destra populista che delle forze responsabili e conservatrici…

Il '68 è stato largamente sconfitto, pur vincendo su un punto cruciale. Il '68 ha rivoluzionato gli stili di vita e i costumi, e ha inciso in profondità sugli assetti di autorità e gerarchia. Ha messo ovvero in discussione che chi comandava, in fabbrica così come in casa, nell'esercito e in chiesa, dovesse continuare a farlo al di là di ogni legittimità razionale e morale. Don Milani lo spiegava con una formula semplice ed efficace: "L'ubbidienza non è più una virtù".

Il garantismo è una cultura minoritaria, la sinistra ha di fronte a sé almeno un altro decennio di purgatorio, la cultura democratica dello Stato è fragile e il riformismo è bloccato. Cosa consiglia di fare allora?

Bisogna organizzare la resistenza con la "r" rigorosamente minuscola, anche se minoranza bisogna combattere. Le questioni sulle quali mobilitarsi sono tante, il loro numero cresce. Io da un anno e mezzo sono rimasto turbato, coinvolto emotivamente fino a piangere, dalla criminalizzazione del soccorso in mare: e su questo mi mobiliterò con le forze e le energie di cui dispongo. Ho settant'anni e cinquant'anni di militanza politica, dei quali passati al Governo cinque o sei, essere minoranza non mi spaventa. L'opposizione non necessariamente si manifesta come minorità. Continuo a pensare e a guardare a coalizioni vaste e partiti larghi. Oltre a resistere bisogna organizzare la cultura, l'informazione, la formazione. Siamo circondati persino da troppi intellettuali, è bene che facciano il loro lavoro. Non sono disperato, al massimo disgustato per il linguaggio e lo stile della comunicazione e del dibattito pubblico. Sono sconfitto, non disperato. La disperazione porta alla resa, riconoscere la sconfitta razionalmente porta invece ad organizzarsi per resistere.

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