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Mancette e spoils system: ecco com’è la rivoluzione della pubblica amministrazione del governo Meloni

La Camera ha approvato la riforma della Pubblica Amministrazione. Per la maggioranza si tratta di una rivoluzione, mentre le opposizioni contestano molti punti del decreto. Il testo prevede tra l’altro diverse norme destinate a far felici i ministri del governo Meloni. E potrebbe dare loro una mano a far fuori i dirigenti sgraditi dentro i ministeri.
A cura di Marco Billeci
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Il 23 aprile la Camera ha approvato il decreto sulla Pubblica amministrazione, firmato dal ministro della Pa Paolo Zangrillo. Secondo il governo siamo di fronte a "una rivoluzione del merito", mentre per le opposizioni si tratta di una legge senza una visione complessiva, inzeppata di prebende e aumenti delle poltrone, dentro ai ministeri.

La riforma interviene sulle norme che riguardano il reclutamento, le graduatorie, la mobilità e le stabilizzazioni nel comparto pubblico. Ma nel testo, ingrossato dagli emendamenti dei deputati nel corso dell'esame parlamentare, si possono trovare misure di ogni tipo. Si va dalla nomina di un dirigente per coordinare la struttura di missione del piano Mattei ai 5 milioni e passa stanziati per la creazione del Hub per l'Intelligenza Artificiale dello Sviluppo Sostenibile, a metà tra ministero delle Imprese e Farnesina. Dall'incremento dell'organico dirigenziale e non dell'Agenzia per le erogazioni all'agricoltura (Agea) all'assunzione di dieci nuovi collaboratori negli uffici del ministro della Salute.

E ancora si aumenta l'indennità accessoria per gli uffici di diretta collaborazione del ministero dell'Interno e della Difesa e si  istituisce un fondo da 190 milioni di euro per alzare i trattamenti di secondo livello di personale e i dirigenti dei ministeri e di palazzo Chigi. E così via dicendo, sono molti i dicasteri a essere interessati  – direttamente o tramite le proprie ramificazioni – da interventi che adeguano le retribuzioni, permettono l'assunzione di personale, ampliano la struttura (e moltiplicano le poltrone).

I ministri decideranno chi mandare in pensione

Accanto a queste misure, ce ne è un'altra passata sotto traccia che potrebbe servire ad accelerare lo spoils system dentro la pubblica amministrazione. E ad assicurare la possibilità ai ministri del governo Meloni di infarcire i loro uffici di fedelissimi, facendo fuori prematuramente i dirigenti ereditati dalle precedenti gestioni. Per capire di cosa si tratta, occorre fare un piccolo passo indietro, all'ultima legge di bilancio.

Con la manovra del 2025, il governo ha innalzato a 67 anni il limite massimo di età per rimanere in  servizio, per lavoratori dipendenti della Pa. Di conseguenza è stato abolito l'obbligo per le amministrazioni pubbliche di mettere a riposo i dipendenti che avessero raggiunto i 65 anni di età e maturato i contributi per la pensione anticipata. Ora con il decreto approvato alla Camera, l'esecutivo torna in parte sui suoi passi.

Viene infatti prevista una deroga alle norme stabilite in manovra e si permette alle pubbliche amministrazioni di risolvere in via unilaterale il rapporto di lavoro con il personale che ha compiuto i 65 anni e abbia l'anzianità contributiva necessaria al pensionamento anticipato. Ci sono solo due vincoli: il primo è che la risoluzione deve essere motivata, anche se  con generiche necessità organizzative. Il secondo è che per ogni amministrazione, l'intervento può riguardare una quota massima pari al quindici per cento dei dipendenti, tra quelli potenzialmente interessati.

Detto in parole più semplici, a parità di condizione, i vertici delle amministrazioni decideranno chi mandare in pensione prima e chi invece può continuare a lavorare. Contraddicendo, come detto sopra, una norma approvata dallo stesso esecutivo di centrodestra solo pochi mesi fa. E creando una condizione di arbitrio che rischia di premiare  i dipendenti più fedeli e punire quelli meno allineati.

La norma ovviamente ha carattere generale per tutta la Pa, ma concentrandosi sulla situazione dei ministeri non è difficile immaginare le possibili conseguenze. In molti casi infatti a entrare in conflitto con i nuovi vertici politici e tecnici nominati dal governo sono stati i dirigenti più anziani, quelli con le spalle più larghe e con un percorso più lungo dentro gli uffici ministeriali. La misura inserita nel decreto approvato alla Camera dunque potrebbe rappresentare una ghiotta occasione per i ministri di Meloni per sbarazzarsi delle figure apicali meno gradite e sostituirle con pedine di comprovata fiducia.

Non a caso, nei corridoi dei palazzi del potere romano si è scatenata la caccia ai possibili bersagli della deroga proposta dal governo. Che dovrebbe terminare nel 2027, in coincidenza con le nuove elezioni politiche. Quando forse il governo Meloni punta ad avere una pubblica amministrazione completamente egemonizzata.

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