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Maiorino: “Con i Centri d’ascolto per uomini maltrattanti si combatte la violenza contro le donne”

In un’intervista a Fanpage.it la senatrice del M5s Alessandra Maiorino spiega il suo ddl, presentato a marzo, per l’istituzione dei Centri di ascolto per uomini maltrattanti: “Se noi riusciamo a mettere in salvo una donna e non interveniamo anche sull’aggressore, quell’uomo avrà una nuova relazione e metterà in atto esattamente gli stessi comportamenti”.
A cura di Annalisa Cangemi
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I Centri d’ascolto per uomini maltrattanti esistono in Italia dal 2009, e hanno il loro fondamento nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne (1993), nella Raccomandazione Rec (2005) 5 del Consiglio d’Europa, nella Risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 sulle priorità e definizione di un nuovo quadro in materia di lotta alla violenza alle donne e nella Convenzione di Istanbul (2013). Nonostante questi richiami normativi i Cam non sono stati ancora sistematizzati. Ed è questo che il ddl 1770 della senatrice Alessandra Maiorino si prefigge di fare: dare ufficialmente e formalmente asilo a queste strutture nell’alveo delle misure di contrasto alla violenza sulle donne, fornendo loro non solo un appiglio normativo, ma anche delle linee guida riconosciute a livello nazionale. L’articolo 1 della legge si intitola infatti ‘Istituzione dei centri di ascolto per uomini maltrattanti’.

Questi progetti accendono un faro non sulle vittime della violenza, ma si occupano degli ‘stalker’ e dei ‘maltrattanti’, prendendoli in carico. Si tratta di percorsi rieducativi trattamentali, strutturati in diversi passaggi, che iniziano con una prima accoglienza e proseguono in una prima fase con colloqui individuali di valutazione e di indagine sulla motivazione. In quest’iter vengono coinvolte anche le partner, per avere un quadro completo sul caso. Lo scopo è naturalmente portare l’uomo a interrompere la violenza, aumentando il suo livello di consapevolezza.

Abbiamo chiesto alla senatrice del M5s Maiorino di spiegarci il contenuto della sua proposta, che introduce una novità: inserisce i Cam all’interno del percorso indicato dal questore all’atto della procedura di ammonimento. Il ddl prevede poi un’aggravante per i casi in cui i delitti di percosse e lesioni di lieve en­tità sono compiuti da soggetti già am­moniti. Il testo modifica il regime di procedibilità, rendendola d’ufficio, nei casi in cui questi stessi delitti siano commessi da soggetti già ammoniti.

Quanti Centri di ascolto per uomini maltrattanti sono operativi in Italia in questo momento?

È difficile dare una cifra, perché al momento sono centri nati in modo spontaneo. Ci sono delle associazioni un po’ più grandi che coprono quasi tutto il territorio nazionale, come Relive, e ci sono anche altre iniziative. Quello che possiamo dire è che non sono ben distribuiti nel territorio, sono più presenti nel Centro Nord piuttosto che nel Sud del Paese. Anche i centri anti violenza del resto sono più presenti al Nord. Al momento parliamo di una trentina di Cam. Il primo è nato nel 2009, prima della Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2013. È importante sottolinearlo, perché la stessa Convenzione di Istanbul, all’articolo 16, raccomanda agli Stati aderenti di avviare questi percorsi per uomini maltrattanti. Al momento questi centri sono frequentati su base volontaria, da uomini che in qualche modo si rendono conto di avere delle difficoltà, dei disagi, nelle relazioni intime. Magari si rivolgono a questi centri perché spinti dalle loro compagne.

Che tipi di disturbi manifestano?

Sono in genere uomini che si rendono conto di mettere in atto comportamenti violenti, fisicamente o psicologicamente, che intossicano la relazione, e creano squilibrio e infelicità nei loro rapporti.

Cosa propone il suo ddl?

Noi ci proponiamo di agire in maniera preventiva, cioè già all’atto della procedura dell’ammonimento del questore, quando c’è un caso in cui vengono coinvolte le forze dell’ordine a seguito di un episodio di violenza. Il questore allora indica questi percorsi. Non si può obbligare gli uomini a intraprendere questi percorsi, quando si presenta una situazione di rischio, ma si mette il maltrattante davanti a una scelta, a un aut aut: o si rivolge a un Cam o scattano misure più restrittive, che però possono essere comminate comunque, dipende dalla gravità della situazione ovviamente. È importante che questi percorsi partano in prevenzione, e non semplicemente per il recupero di un uomo che ha già agito violenza. Anche perché per questo già c’è il Codice rosso, che prevede percorsi per uomini condannati all’interno delle carceri. In questo punto però è già tardi, qualcosa di grave è già avvenuto.

Quindi i Cam con il disegno di legge otterrebbero un riconoscimento ufficiale?

Sì, i Cam entrano a far parte a pieno titolo della rete anti violenza, di supporto alle vittime, perché sappiamo benissimo che gli uomini maltrattanti tendono a ripetere i loro comportamenti. Se noi riusciamo a mettere in salvo una donna e non interveniamo anche sull’aggressore, quell’uomo avrà una nuova relazione e metterà in atto esattamente gli stessi comportamenti. Quindi smontare gli stereotipi per i quali l’uomo agisce violenza ci consente di salvare altre potenziali vittime.

Il ddl è stato presentato a marzo 2020. A che punto siamo?

Non è stato ancora incardinato, ma si è alzata l’attenzione sul tema. La ministra Bonetti però nel Piano antiviolenza ha inserito anche i percorsi per uomini maltrattanti. Si è interessato anche il ministro Bonafede. In Commissione probabilmente creeremo un testo unico da esaminare, accorpando il mio ddl e quello della senatrice Donatella Conzatti. I due testi sono sovrapponibili. Il nostro intento è dare la delega al governo per scrivere delle linee guida, affinché tutti i centri possano poi seguire gli stessi criteri e perseguire gli stessi obiettivi, per avere un’uniformità. Per esempio stabilendo che tipo di specializzazione devono avere i professionisti che lavorano in queste strutture. Perché come dicevamo ci sono diverse iniziative sul territorio nazionale. Gli approcci terapeutici possono essere differenti, ma ci devono essere dei criteri validi per tutti.

Quando un uomo si rivolge a un Cam che tipo di aiuto riceve?

Trova innanzi tutto dei professionisti che sono stati formati per queste problematiche relazionali. Ho parlato con alcuni di questi operatori, che mi hanno spiegato che utilizzano un approccio non giudicante. Si vede a poco a poco un cambiamento nell’uomo maltrattante: in una prima fase incolpa la compagna, la vittima. Passo dopo passo riesce a riconoscere la propria responsabilità. A prendere coscienza del disvalore del proprio comportamento, a indagarne le cause. Spesso si tratta di persone che hanno avuto traumi durante l’infanzia, che hanno subito violenze, magari dai genitori. I professionisti aiutano a sciogliere quei nodi che impediscono all’uomo di avere una relazione serena con l’altro sesso.

I Cam offrono anche un servizio alle donne?

Non prendono in carico donne, ma si relazionano sempre con la compagna del maltrattante, se c’è. La partner non è esclusa, viene costantemente informata, naturalmente non dei dettagli. Ma i Cam non sono centri di recupero della relazione, non fanno consulenza matrimoniale e non mirano a tenere in piedi un rapporto a tutti i costi, nel caso in cui la violenza sia così grave da mettere a rischio l’incolumità della donna. Qui si lavora solo sui problemi irrisolti che riguardano la personalità dell’uomo.

Cosa può fare una persona che viene a conoscenza di una relazione violenta? Può rivolgersi direttamente a un Cam?

No, perché al Cam deve presentarsi il diretto interessato. Però con questo ddl noi rendiamo anche i reati di violenza domestica e di stalking procedibili d’ufficio. Per cui se qualcuno è a conoscenza di episodi di violenza all’interno di una coppia può rivolgersi alle forze dell’ordine, le quali, raccolto il consenso della vittima, possono procedere.

Come verranno finanziati?

Noi abbiamo già stanziato un milione di euro con il decreto Agosto. È ancora poco, ma serve intanto per avviare il processo. Si tratta di un fondo distinto rispetto al fondo che serve a finanziare i centri anti violenza per le donne vittime di violenza. È sempre all’interno del ministero per le Pari Opportunità, ma è un fondo interamente dedicato ai Centri d’ascolto per uomini maltrattanti. Perché se non mettiamo l’uomo che agisce violenza all’interno di questo quadro mancherà sempre un tassello, un tassello fondamentale. E poi c’è anche un messaggio culturale.

Si spieghi meglio.

È l’uomo che si mette in discussione. È vero che anche le donne possono essere violente. Ma i numeri ci dicono che questi casi sono la minoranza. Gli uomini si portano dietro spesso un retroterra culturale di sproporzione di potere, di diritti, di possesso, che viene dal nostro passato. Basti pensare che noi abbiamo abolito solo da pochi anni il delitto d’onore. Era giuridicamente riconosciuto il diritto di un uomo di sentirsi offeso nell’onore e quindi di accedere a uno sconto di pena, qualora uccidesse la compagna perché era stato tradito. Noi veniamo da questo, non dimentichiamolo. Dentro di noi è ancora presente questo retaggio culturale. Questi centri e questi professionisti cercano di scardinare questi stereotipi, che probabilmente in alcuni individui sono radicati in maniera più potente. La violenza domestica è stata ritenuta un fatto privato fino a pochi anni fa, non ci si doveva intromettere nelle questioni tra moglie e marito

L’Italia quindi è in colpevole ritardo, non ha recepito le indicazioni della Convezione di Istanbul. Perché?

Sì, il nostro Paese è in ritardo, non si è attivato. E credo che una delle principali ragioni sia una sorta di tabù, che ci impedisce di mettere in discussione il maschile. È chiaro che la vittima va tutelata, protetta, supportata e reinserita nella società. Ma non basta mettere in galera il maltrattante per risolvere il problema. In questi casi stiamo parlando del reato di violenza, non di un omicidio, quindi l’aggressore difficilmente avrà un ergastolo. Quando uscirà dal carcere tenderà a rifare esattamente le stesse cose. Per questo invece bisogna agire su quelli che si chiamano “reati spia”, piccoli episodi di violenza, schiaffi o maltrattamenti che non siano attentati alla vita, che distruggono l’esistenza della vittima.

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