Niente tasse e niente tagli. Con questo slogan il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha sostanzialmente introdotto la versione preliminare del Def, il Documento di economia e Finanza, intorno al quale ruoterà la politica economico – fiscale del Governo nei prossimi anni. Il Governo ha scelto di “dilazionare” la presentazione del Def in appuntamenti temporali diversi (il varo definitivo si avrà nella giornata di venerdì e poi bisognerà attendere la valutazione della Commissione Europea e quella successiva del Parlamento), anche per dare il senso della complessità del lavoro. Del resto, si tratta di un passaggio centrale per l’esecutivo, che sostanzialmente sta programmando “gli obiettivi di politica economica e il quadro delle previsioni economiche e di finanza pubblica almeno per il triennio successivo”, oltre a fornire le stime, gli obiettivi programmatici, il conto economico e di cassa, lo stato di avanzamento delle riforme, gli squilibri macroeconomici, le “priorità del Paese” e le previsioni tendenziali.
Come prevedibile, più che sui contenuti del Def (in attesa di conoscerne la stesura definitiva, ovviamente), le polemiche sono sorte sul modo in cui Renzi ha “raccontato” la politica economico – fiscale del Governo. In effetti, come hanno notato in molti, sembra esserci una serie di incongruenze tra quanto sostenuto dal Presidente del Consiglio e gli stessi contenuti del Documento di Economia e Finanza. Per la verità Renzi questa volta non ha promesso di abbassare le tasse, chiarendo che interventi in tal senso saranno possibili solo se “ci saranno le condizioni” (insomma, se arriveranno risorse aggiuntive oltre ai 10 miliardi necessari per eliminare le clausole di salvaguardia e raggiungere gli obiettivi di bilancio). Tuttavia il riferimento al “taglio delle tasse per 18 miliardi di euro” operato nel 2015 ha fatto storcere il naso a più di un analista, soprattutto considerando che nello stesso documento allegato (nella parte curata dalla Ragioneria Generale dello Stato) si conferma come le entrate nel 2015 siano aumentate di circa 10 miliardi di euro, con la pressione fiscale invariata rispetto agli anni precedenti.
Dunque, perché Renzi parla di 18 miliardi di euro di tasse in meno?
Partiamo da un presupposto: l’Italia ha i conti a posto, non è sottoposta a procedure di inflazione e le previsioni, seppur improntate alla cautela, sono incoraggianti. Nel DEF infatti si prevede che il Pil crescerà dello 0,7% nel 2015, dell’1,4% nel 2016 e dell’1,5% nel 2017 e dell’1,4% nel 2018; il rapporto deficit / Pil sarà del 2,6% quest’anno, per poi scendere all’1,8% nel 2016, allo 0,8% nel 2017 e arrivare al pareggio nel 2018; il rapporto Debito / Pil calerà dal 132,5% di quest’anno al 123,4% nel 2018. La manovra (che vale 10 miliardi di euro) serve essenzialmente per disinnescare le clausole di salvaguardia (che avrebbero portato all'aumento dell’Iva) e per “sostituire” gli sconti ottenuti da Bruxelles (sui quali non si potrà più fare affidamento nel caso di crescita oltre il potenziale).
C’è un passaggio però molto importante, sottolineato da Francesco Daveri nel suo approfondimento su LaVoce:
Malgrado l’accelerazione della crescita, gli obiettivi di deficit per il 2015 e per gli anni a venire sono confermati – in percentuale sul Pil – rispettivamente al 2,6 per cento per il 2015, all’1,8 per il 2016 e allo 0,8 per cento per il 2017. Un’economia che cresce più rapidamente dovrebbe automaticamente generare più entrate fiscali e avere meno bisogno di cassa integrazione, sussidi di disoccupazione e altre spese sociali. Quindi negli anni a venire si dovrebbe assistere a una naturale discesa del deficit pubblico rispetto ai numeri preventivati l’anno scorso. Questo nei piani del governo invece non avverrà. Se ne deduce che le (eventuali) risorse aggiuntive prodotte dalla più rapida crescita saranno destinate ad addolcire l’onere dell’aggiustamento fiscale per famiglie e imprese.
Se non arriveranno altre risorse aggiuntive la pressione fiscale non calerà. E infatti come si legge nel Def le tasse non calano: “l’aumento ufficiale di entrate è pari a 10 miliardi per il 2015, con un peso sul Pil sostanzialmente inalterato al 48,3 per cento […] In nessun caso però le imposte pagate complessivamente dagli italiani sono destinate a scendere nel 2015”.
Renzi intanto rivendica di aver abbassato le tasse di 18 miliardi di euro nel 2015. Come?
Questa ricostruzione è però contestata da molti. E con argomenti piuttosto solidi, considerando che è la stessa Ragioneria Generale dello Stato a confermare che la spesa per gli 80 euro non può tecnicamente essere considerata come una riduzione delle imposte, bensì come ulteriore spesa dello Stato. Renzi in tal senso mostra un certo "scetticismo":
E a chi fa notare come si tratti di una lettura confermata anche dalle istituzioni europee, risponde così:
Ma come stanno le cose? È davvero così cruciale capire se gli 80 euro rappresentano una riduzione della tassazione o una "spesa ulteriore" per le casse dello Stato? Una spiegazione prova a darla il professor Stevanato:
L’incerta classificazione del bonus 80 euro tra le spese o le riduzioni di tasse dipende in parte dalla complessità dello strumento utilizzato (credito di imposta anziché detrazione), e in parte dalla controversa nozione di “tax expenditure”, istituto che già dal nome rivela il suo carattere ancipite.
Il bonus 80 euro spetta come noto ai soggetti (con redditi non superiori a 26 mila euro) che hanno un’imposta lorda superiore alla detrazione per redditi di lavoro dipendente, e va prioritariamente a compensare le ritenute Irpef altrimenti dovute. Fino a qui mi sembra evidente che il “bonus” determina una riduzione di entrate (tributarie) per lo Stato, e una riduzione del debito d’imposta per il contribuente.
[…] Però il bonus (credito di imposta) spetta anche nel caso in cui il debito di imposta sia azzerato da altre detrazioni. In caso di incapienza del debito Irpef, il bonus va quindi attribuito dal sostituto utilizzando le ritenute previdenziali, che quindi non vengono in pari misura versate. Ma l’Inps recupera i contributi rivalendosi sulle ritenute fiscali che esso deve versare all’Erario nella sua qualità di sostituto d’imposta. Dunque, anche per tale quota il bonus si traduce in minori entrate tributarie; vista dal lato del lavoratore, invece, la quota del bonus che non trova capienza nelle ritenute Irpef determina un’espansione della sua retribuzione equivalente ad un rimborso di imposte che non erano dovute, avvicinandosi in tal modo ad una diretta erogazione di spesa pubblica
Insomma, per l'ennesima volta la questione sembra essere schiacciata dalla propaganda tra le opposte fazioni. Tutto normale, come nota Mario Seminerio, in "una Repubblica democratica fondata sulla fallacia, logica prima che economica". Discorso simile sulla questione dell'Irap, con il taglio per il 2014 "rimangiato", come spiega Riccardo Puglisi su Linkiesta:
Detto in una frase: il governo Renzi si è rimangiato il tanto agognato taglio dell’Irap nel 2014 per evitare di sforare il limite del 3% sul deficit. […] Dal punto di vista della competenza, la relazione tecnica alla Legge di Stabilità ci spiega che il mancato taglio dell’Irap per il 2014 vale 2 miliardi di euro di miglioramento per il deficit, che – ai fini dei vincoli europei sui conti pubblici – è appunto calcolato per competenza e non per cassa. Qualche giorno fa, l’Istat ha comunicato che il deficit per il 2014 è esattamente il 3 per cento. Solo per un pelo, quindi, non abbiamo sforato il famoso limite che nacque a Maastricht: 2 miliardi di euro valgono all’incirca lo 0,125% di Pil: se il governo non si fosse rimangiato il taglio dell’Irap si sarebbe assestato intorno al 3,125%, ossia sopra il limite del 3 per cento.
Il Governo invece insiste sul taglio dell'Irap, ovviamente facendo riferimento al 2015, anno nel quale entrerà in vigore il nuovo meccanismo di taglio, che costerà tra i 4 ed i 5 miliardi di euro. Riducendo una questione di sostanza ad una specie di gioco delle tre carte. Discorso più complesso per quel che concerne la decontribuzione: il Governo ancora non ha deciso se prorogare l'incentivo per le assunzioni al 2016 o se fermarlo al 31 dicembre 2015; in ogni caso serviranno risorse aggiuntive rispetto agli 1,8 miliardi stanziati finora.
Insomma, tra propaganda, annuncite e "confusione organizzata", come si riesce ad avere un quadro "realistico" della questione? Ci prova Enrico Marro sul Corsera, che riassume le criticità del momento con un pezzo da leggere:
In sintesi: Renzi ha deciso sei mesi fa (quando ha inserito le clausole di salvaguardia, ndr), perché non ha saputo fare di meglio, che l’anno prossimo sarebbero aumentate le imposte e sempre Renzi ora annuncia che non aumenterà le tasse perché troverà misure alternative per far quadrare i conti. Ovviamente ci fa piacere, ma chiunque capisce che questo non è un taglio delle imposte (come invece c’è stato nel 2015), ma un giochetto a somma zero e quindi non c’è da stupirsi se la pressione fiscale più o meno resta quella che è, superiore al 43% del prodotto interno lordo.
E infatti i dati relativi alla pressione fiscale sono chiarissimi, come scrive Primo De Nicola sul Fatto: "Def per Def, prendendo quello dello scorso anno e confrontandolo con il nuovo si scopre che la pressione fiscale indicata per il 2014 al 43,3 per cento è passata al 43,5, mentre quella per il 2015 stabilita al 43,4 è salita al 43,5. Peggiore la previsione 2016, cresciuta addirittura dal 43,6 al 44,1".