Come vi stiamo raccontando, il risultato delle elezioni del 4 marzo ha determinato una situazione confusa, con l’assenza di una chiara maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Da giorni si ragiona sulla possibilità della nascita di un governo di scopo, o un’altra versione “istituzionale”, data la difficile percorribilità dell’ipotesi di un governo “politico”, considerate le posizioni espresse dalle differenti forze politiche. Il PD ufficialmente è indisponibile a sostenere tanto un esecutivo di centrodestra quanto uno a guida M5s, la Lega e il MoVimento sembrano aver smesso di lavorare a una soluzione di compromesso che potesse portare a un accordo parlamentare, le posizioni dei tre gruppi sono molto distanti, sui nomi e sui programmi, e infine c'è sempre il convitato di pietra, che ancora una volta risponde al nome di Silvio Berlusconi.
Sono in molti a pensare che Lega e M5s abbiano il diritto – dovere di parlarsi, di verificare se esista o meno la possibilità di governare assieme. Tale lettura parte da un "già dato", ovvero dalla presunta vicinanza fra i due partiti e fra i loro leader. Lega e M5s sono forze antisistema, euroscettiche, anti-casta e di destra, si sostiene. Salvini e Di Maio sono politici populisti e demagoghi, che condividono la stessa visione di futuro e lo stesso modo di fare politica, si aggiunge. Dovrebbero, devono parlarsi e trarre le conseguenze del loro risultato elettorale, si suggerisce.
A parere di chi scrive, tale lettura parte da un assunto condivisibile ma arriva a conclusioni sbagliate. Quanto sono simili Lega e M5s? Quanto spazio c’è per lavorare assieme? Basta la condivisione di alcuni punti per cominciare un percorso comune? Siamo davvero al punto di rottura fra forze antisistema e partiti tradizionali?
La questione è complessa, ma tanto per cominciare occorrerebbe sgombrare il campo da una non – notizia: non ci sono al momento le condizioni per la nascita di un governo basato sull’alleanza organica fra Lega e M5s. Non c’è la volontà politica dei due leader, che stanno giocando partite diverse, sia pur con obiettivi simili. Non c’è una piattaforma politica su cui lavorare, dal momento che le due forze si sono presentate con programmi molto distanti. Non c’è alcun motivo per cui i due debbano accettare di condividere un percorso osteggiato da gran parte dei loro elettori, regalando armi formidabili ai loro avversari politici. Parlare genericamente di "populismo" per M5s e Lega non è corretto, poiché si tratta di declinazioni diverse (i primi seguono essenzialmente lo schema "alto – basso", i secondi inseriscono la chiusura nei confronti del "diverso" fra gli elementi caratterizzanti) e perché la storia delle due formazioni politiche non è sovrapponibile.
Come vi abbiamo spiegato qui, i percorsi di Salvini e Di Maio divergono in maniera sostanziale: “Salvini è un populista a capo di un partito tradizionale, Di Maio è un politico tradizionale (in formazione) a capo di un movimento populista. O, per dirla in altro modo, Salvini sta riportando la Lega a essere un partito populista (come lo era alle origini, pur con obiettivi e nemici diversi), Di Maio ha il compito di istituzionalizzare il MoVimento 5 Stelle, il partito fieramente populista”. Entrambi interpretano a modo loro lo spirito del tempo, ovvero la figura del leader negli anni dello spontaneismo e della sovrapposizione di fatti, emozioni, dati, paure. È il tempo, insomma, in cui valori come sincerità, schiettezza, trasparenza, empatia sono determinanti per il successo di un leader, come (forse) un tempo lo erano competenza, capacità di mediazione, dialettica, preparazione culturale eccetera. E, per inciso, lo snobismo, il paternalismo e il fastidio con cui i maître à penser de' noantri giudicano le scelte comunicative dei due, sono indici di un incredibile scollamento dalla realtà, che poi si traduce nella mancata comprensione di quelle dinamiche che poi contribuiscono a determinare il risultato elettorale.
Solo in questo contesto possono essere interpretate le mosse dei due in questa crisi di governo.
La volontà di rendere il M5s forza di governo ha determinato un netto cambiamento nell’approccio al “Palazzo”: compromessi e trattative, spartizioni e alleanze sono parole sparite di colpo dalla blacklist grillina, vecchi tabù sono già caduti e altri ne cadranno (ogni riferimento al doppio mandato imperativo non è casuale), l’ascia di guerra col PD è stata finalmente sotterrata. Ma, un conto è giocarsi fino in fondo le carte per far nascere un esecutivo 5 Stelle, un altro è fare patti col diavolo pur di salire a Palazzo Chigi. O meglio, per provare a salire a Chigi, senza averne nemmeno certezza. Da qui la necessità di mettere dei paletti, di tracciare una linea oltre la quale non andare: no a Berlusconi, niente legittimità politica alla “coalizione di centrodestra”, precedenza dei programmi sulle alleanze (da cui la completa intercambiabilità di Lega e PD).
Salvini invece è chiamato al percorso inverso: dimostrare la discontinuità della Lega rispetto alla stagione precedente, pur tuttavia conservando l’alleanza con uno dei partiti simbolo di un certo modo di intendere la politica. Un alleato di cui ha bisogno per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione di forza e per rivendicare “la guida dell’esecutivo del cambiamento”. Anche in questo caso, il leader leghista ha un obiettivo chiaro e pressoché unico, la cui ricerca non può però compromettere un percorso di crescita continuo e, stando a quanto dicono i sondaggi, ancora non concluso. Perciò, anche lui ha necessità di mettere paletti e di tracciare una linea oltre la quale non andare: la partecipazione del PD a un esecutivo (che trasformerebbe l’intera operazione in una “classica manovra di palazzo”), il no a qualunque veto da parte del M5s (Berlusconi può essere scaricato, ma come e quando non lo decide Di Maio).
Veti incrociati che hanno finora prodotto uno stallo che ha resistito anche alle pressioni di Mattarella e delle diplomazie internazionali. Una situazione complicata anche dal no del PD a qualunque tipo di accordo politico con "chi ha vinto le elezioni", per un quadro complessivo che non è affatto sicuro potrebbe mutare nel breve periodo.
Cosa c'è oltre le linee tracciate da Salvini e Di Maio? Secondo alcuni analisti c'è il governo del Presidente, o un esecutivo di scopo affidato a una figura di alto rilievo istituzionale. Ma, come abbiamo visto, nessuno dei due ha ragioni valide per sostenere un governo di compromesso. Nessuno dei due può correre il rischio di lasciare praterie all'altro, legittimandolo a capo dell'unica opposizione all'ennesimo inciucio. Nessuno dei due può mollare la presa sul campo della contestazione sistemica, quello che ingrossa le fila dei rispettivi elettorati e che si nutre della polemica contro le elite, i governanti, i "tecno-burocrati". Nessuno dei due può rinunciare a definirsi interprete della volontà popolare, contribuendo a far nascere "l'ennesimo governo non eletto dal popolo". E, più prosaicamente, nessuno dei due può correre il rischio di essere escluso dalla discussione della prossima legge elettorale.
Dunque, come si esce dall'impasse? O facendo saltare il tavolo, dunque chiedendo al Capo dello Stato di riportare il Paese alle urne e giocarsi il tutto per tutto in una campagna elettorale dai toni infuocati. O facendo saltare i paletti, abbandonando tabù e remore. Magari facendo l'uno un passo in direzione dell'altro. Tradotto: Salvini dovrebbe accelerare il processo di sganciamento da Berlusconi e Di Maio dovrebbe accettare un ruolo di "secondo", per un periodo di tempo necessario a mettere in sicurezza i conti, disinnescare l'aumento dell'IVA, portare a casa qualche provvedimento urgente su cui "c'è già sinergia" e riscrivere la legge elettorale. Ma il leader leghista non è ancora certo di poter svuotare completamente il bacino elettorale di Berlusconi e teme di restare col cerino in mano nel caso saltasse l'accordo o ci fossero ripercussioni nelle giunte comunali e regionali. E il leader M5s non ha fatto una campagna elettorale trionfale per consegnare la poltrona di Palazzo Chigi a un esponente leghista. Strade parallele, appunto.