Fare come il Regno Unito. La Brexit ha inevitabilmente rianimato una discussione che sembrava morta e sepolta da tempo, almeno dal referendum greco: quella relativa alla possibilità che anche il nostro Paese abbandoni la Ue, o almeno la moneta unica.
Andiamo con ordine, cominciando a capire come si esce dall’Unione Europea. Il primo passo è fare riferimento all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che disciplina appunto le modalità con le quali uno Stato può “uscire” dall’Unione Europea.
Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione.
Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione.
L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.
Dunque, se esiste la volontà politica e se sono rispettate le norme costituzionali interne, uno Stato può avviare negoziati con le autorità Ue per mettere a punto una serie di trattati sostitutivi che disciplinino i successivi rapporti con l’Unione Europea. L’interlocutore principale è il Consiglio Europeo, con il quale lo Stato che intende uscire dalla Ue dovrà trovare un accordo (parallelamente ci saranno altri negoziati, in particolare dal punto di vista “commerciale”). Al termine del periodo dei due anni, il Consiglio formulerà una proposta allo Stato, che potrà accettarla o rifiutarla. Vale per il Regno Unito e anche, ovviamente, per l'Italia.
Vale la pena di sottolineare, però, come la questione sia molto complessa e come non vi sia molta certezza sulle tempistiche; inoltre, bisognerà capire quale sarà “l’offerta” della Ue e cosa potrebbe cambiare nel concreto nei prossimi anni.
L’Italia fuori dalla Ue, l'ItExit
Partiamo da una considerazione: la Costituzione italiana vieta espressamente di indire un referendum diretto su questioni di tale ambito. L’articolo 75 della Carta recita: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Sarebbe invece tecnicamente possibile indire un referendum di indirizzo politico, che spinga il Governo a muoversi in tale direzione. Per farlo servirebbe una legge costituzionale ad hoc per un referendum consultivo, come fatto nel 1989, quando la legge del 3 aprile stabilì che il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Cdm, dovesse indire un referendum “di indirizzo” avente questo quesito:
Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?
Percorso possibile, dunque, ma particolarmente complesso e, numeri alla mano, non plausibile per questa legislatura. Ancora una volta il discorso torna sul punto centrale: serve la volontà politica del Governo, magari su un "chiaro mandato" degli elettori e non sono ammesse scorciatoie.
Un esempio chiaro può essere fornito considerando la "semplice" uscita dall'Euro, l'abbandono della moneta unica e il ritorno alla lira. Anche in questo caso non sarebbe possibile chiedere un referendum che affronti direttamente la questione. Il M5S ha da tempo disegnato la propria proposta, che dovrebbe seguire più o meno questa strada:
Una legge costituzionale per indire il referendum di indirizzo, presentata sotto forma di legge di iniziativa popolare; deposito in Parlamento e pressing dei gruppi M5S per la discussione in Aula; approvazione legge e indizione referendum; vittoria del fronte No Euro e mandato al Governo per l’avvio dei trattati per l’uscita dell’Italia dalla moneta unica.
Le tempistiche immaginate da Grillo sono già saltate e, in ogni caso, restano tutte le perplessità del caso (qui riassunte):
In primo luogo, stante la vigente normativa, il Parlamento non è obbligato a discutere una legge di iniziativa popolare. I parlamentari del M5S si sono ripromessi di "vigilare e fare pressioni" affinché le Aule esaminino la proposta, contando anche sulla forza d'urto di milioni di firme, ma non c'è alcun tipo di garanzia (qualcuno ricorda il modo, assurdo certo, con cui è stata accantonata la proposta Parlamento Pulito?). Men che mai sulle tempistiche […] considerando che il progetto di revisione della Costituzione deve necessariamente seguire la procedura “aggravata” tipizzata dall’art. 138 Cost. […] con la “seconda approvazione” in ognuna delle Camere che deve avvenire a maggioranza assoluta
[…] Ma che la strada intrapresa porti in un vicolo cieco è testimoniato anche da un altro possibile epilogo. Anche ammettendo che si arrivi al referendum di indirizzo, e ammettendo che gli italiani si esprimano per l'abbandono della moneta unica, il Parlamento potrebbe tranquillamente ignorare tale risultato. Da un punto di vista legislativo, infatti, non ci sono obblighi; da quello politico, invece, non appare azzardato pensare ad una affluenza minima e a risultati che non possano "garantire" sulla reale, chiara ed effettiva volontà degli italiani di dire addio all'euro
L’unica strada “politica” per l’uscita dalla moneta unica è quella immaginata dalla Lega Nord e riassunta da Claudio Borghi: “Dall'euro di propria iniziativa esce solo un Governo democraticamente eletto, sostenuto da partiti che hanno cercato i voti con l’uscita dall’euro nel programma, con lo strumento del decreto legge”.
Uno strumento “tecnico” potrebbe essere rappresentato, a quel punto, dagli articoli 139 e 140 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che appunto disciplinano le condizioni di Stati membri la cui moneta è l'euro e quella di Stati membri con deroga e le modalità con le quali uno Stato membro può chiedere di aderire alla moneta unica. In tal senso, ancorché non espressamente previsto, si potrebbe considerare come la decisione del Consiglio Europeo che accerta i requisiti di accettazione della domanda di ingresso, comporti la “verifica” della volontà dello Stato di rimanere nell’area della moneta unica.
Insomma, per concludere: non ci sono ostacoli di natura tecnica insormontabili per l'abbandono della moneta unica, ma allo stesso tempo sarebbe necessaria una chiara volontà politica da parte del Governo, sorretta, si spera, da un ampio mandato dei cittadini. Al momento (per fortuna, aggiungiamo noi a mero titolo di considerazione), tutto ciò manca.