Ci sono pochi dubbi sul fatto che il PD sia arrivato in affanno alla vigilia della campagna elettorale delle elezioni amministrative. Da Milano, con Sala ancora alla ricerca della quadra e per nulla certo del sostegno della coalizione che portò Pisapia alla vittoria, passando per Roma, dove Giachetti è costretto a rincorrere e dove oggettivamente il PD non ne azzecca una da almeno una decina di anni, fino ad arrivare a Napoli, con il disastro primarie e l’incognita Bassolino. Le amministrative sono un caso a parte, lo concediamo. Ma la situazione non sembra molto diversa se allarghiamo lo sguardo, in particolare dopo la condanna di Denis Verdini, che ha riaperto la polemica interna al PD.
Difficoltà fotografate dagli ultimi sondaggi su scala nazionale, che vedono il PD al 32% e per nulla certo di ottenere il successo in un eventuale turno di ballottaggio (i sondaggisti sono concordi nell’ipotizzare una vittoria nel caso di un duello Renzi – Salvini e “grandi difficoltà” nel caso in cui al ballottaggio arrivasse il candidato del Movimento 5 Stelle). Anche per questo, c’è grande interesse per capire quali saranno le scelte del gruppo dirigente democratico per quel che concerne gli accordi elettorali e le intese con gli altri soggetti politici. In vista delle politiche, certo, ma anche della prosecuzione dell'esperienza di Governo.
Senza girarci intorno, le opzioni sono sostanzialmente due, due e mezzo a voler essere precisi. Il PD può riproporre la coalizione che sostenne Pier Luigi Bersani nel 2013, cercando magari di ricucire lo strappo con Sel e “inventando” un nuovo soggetto centrista che raccolga ciò che resta di Scelta Civica e di Centro Democratico: strada complicata, vista la distanza a sinistra, e non sicura di successo, considerando il peso in termini di consenso dei centristi. Oppure al giudizio degli elettori può essere sottoposta la maggioranza che sostiene il Governo, con il completamento di quella sovrapposizione partito – Governo – Renzi che caratterizza l'era "post Enrico Letta". Come (minima) alternativa c'è la configurazione "partito della Nazione", con l'inglobamento nel PD dei centristi e qualche "garanzia" per gli amici degli amici.
Insomma, le elezioni politiche come referendum sull'operato del Governo: scelta legittima, ovviamente. Ma funzionale allo scopo?Politicamente si tratterebbe di una scelta di campo chiarissima, che metterebbe la minoranza del partito di fronte a un bivio: accettare di "normalizzare" la fase di emergenza (Renzi, del resto, ha più volte spiegato come l'accordo con Alfano sia stato determinato in primo luogo dalla "non vittoria" di Bersani alle politiche del 2013), o cercare strade alternative. Dal punto di vista del mero risultato elettorale, però, la questione è ancora aperta. Certo, manca ancora molto tempo al voto delle politiche (a meno di sorprese al referendum sulle riforme costituzionali), ma ci sono indicazioni chiare di cui sarebbe un errore clamoroso non tenere conto.
Insomma, per farla breve, al Pd conviene imbarcare Alfano e continuare ad andare a braccetto con Verdini?
Qualche dato prova a fornirlo Roberto D'Alimonte sul Sole24Ore, considerando la configurazione della nuova legge elettorale e giungendo a una conclusione singolare ma decisamente interessante:
Verdini e soci, ma anche Renzi e alleati, dovranno fare i conti con tre caratteristiche di questo sistema: il premio di maggioranza alla lista, la soglia di sbarramento al 3% e l’assenza di apparentamento tra primo e secondo turno. […] Oggi né Alfano né Verdini hanno i voti per superare la soglia del 3%. Questo dicono i sondaggi. […]
Accogliere Alfano e Verdini dentro la lista del Pd non conviene né a loro né a Renzi. Se il premier vincerà le prossime elezioni avrà 344-345 seggi, i 340 garantiti dal premio più quelli vinti nella circoscrizione estero. La maggioranza alla Camera è 316. Avrà quindi un margine di una trentina di seggi. Non sono sufficienti per liberarlo dai ricatti della sua minoranza interna perché non riuscirà a comprimerne sotto quella soglia la presenza nel futuro parlamento. Alfano e Verdini eletti nella lista Pd non gli serviranno per rafforzare la sua maggioranza perché starebbero dentro quei 344-345 seggi che vanno a chi vince. Potrebbero servirgli invece se – mettendosi insieme -superassero la soglia del 3%. In questo caso andrebbero a prendersi una parte dei 278 seggi destinati alle liste perdenti. Così ai suoi 344-345 seggi Renzi potrebbe aggiungere all’occorrenza i seggi di quel partito moderato di centro che oggi si chiama Ncd e domani avrà un altro nome.
Insomma, da un certo punto di vista, a Renzi converrebbe tener fuori Alfano e Verdini. Resta da capire come giustificare "concettualmente" l'esclusione, dopo aver governato, prima solo con Alfano, poi con Alfano e il sostegno esterno di Verdini, poi (forse) con entrambi. Ma, in fondo, c'è tempo. Almeno così sembra.