L’Upb stronca la riforma fiscale di Meloni: aiuta i redditi alti e porterà tagli al welfare
Un altro parere negativo sulla flat tax, la tassa piatta che il governo Meloni ha posto come obiettivo finale della sua riforma del sistema fiscale. L'Ufficio parlamentare di bilancio, nella sua relazione alla commissione Finanze della Camera sul testo della legge delega varata dal governo, ha messo in evidenza alcune delle stesse criticità che erano emerse dall'audizione della Banca d'Italia della scorsa settimana. E non si è fermato, sottolineando anche tutti i rischi che vengono da una riforma che, in pratica, non ha ancora delle coperture chiare.
Il problema con la flat tax: meno entrate per lo Stato e benefici ai più ricchi
In particolare, si legge che il passaggio a una aliquota unica uguale per tutti i contribuenti avrebbe "effetti redistributivi che penalizzano i soggetti con redditi medi e favoriscono quelli con redditi più elevati". L'unico modo per evitare questo effetto sarebbe "rinunciare a una elevata quota di gettito" per lo Stato.
Vero è, come sottolineato dalla relazione, che al momento dal governo mancano tantissime informazioni su cosa vuole fare, nel dettaglio. Ad esempio, banalmente, a che aliquota sarebbe fissata la flat tax unica per tutti. I dati mostrano che, nel 2022, i contribuenti che versano l'Irpef in media hanno pagato una tassa di "circa il 20%". Al di sopra di questa soglia "si concentra poco meno del 14% dei contribuenti", che però "versano quali il 60% del gettito". Perciò, abbassare l'Irpef a chi paga di più – cioè chi ha un reddito più alto – metterebbe a rischio una grande parte delle entrate per lo Stato.
Da dove arrivano i soldi: le spese fiscali da ridurre non sono molte
Un grosso problema della riforma fiscale, infatti, è come il governo intenda pagarla. C'è scritto nel testo che non deve aumentare la pressione fiscale sui contribuenti, e non devono nemmeno crescere i costi per la finanza pubblica. Ma come è possibile? La legge "fa riferimento ai risultati dell'attività di contrasto dell'evasione", che prevede di dare più libertà e meno controlli alle aziende, e alla "razionalizzazione e riduzione delle spese fiscali". Cioè le varie detrazioni e deduzioni fiscali, da cancellare e riordinare.
Il governo continua a ripetere che queste detrazioni sono più di 600, nel sistema fiscale italiano, ed è vero. E potrebbero davvero portare diversi miliardi di euro nelle casse dello Stato, se venissero ridotte. Ma il problema è che queste detrazioni sono degli sconti sulle tasse che spesso aiutano i contribuenti su aspetti importanti. Come ha sottolineato l'Upb, la legge prevede di "porre particolare attenzione alla salvaguardia della famiglia, della tutela della casa, della salute, dell’istruzione e della previdenza complementare", ma anche "agli obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica e della riduzione del rischio sismico del patrimonio edilizio".
In tutti questi settori, quindi, bisognerà ridurre le detrazioni il meno possibile, o non ridurle affatto. Però questi raccolgono la maggior parte delle detrazioni. Così, volerli tutelare "riduce sensibilmente l’entità delle spese fiscali sulle quali poter intervenire".
Bisogna ridurre la spesa pubblica, e quindi "plausibilmente" tagliare il welfare
Le alternative perciò sono due. Una è prendere soldi in prestito e fare debito, cosa che avrebbe "conseguenze negative per l'equilibrio dei conti pubblici" e renderebbe la riforma insostenibile. La seconda è quella che il governo Meloni ha sempre negato di voler attuare: una riduzione della spesa per le misure di welfare, come istruzione e sanità.
L'Ups ha sottolineato che l'obiettivo della riforma fiscale "potrà essere raggiunto solo attraverso una riduzione permanente della spesa pubblica". E se è vero che nella spesa pubblica italiana ci sono certamente degli sprechi, ridurla in modo permanente "richiederebbe plausibilmente una ridefinizione del livello dei servizi pubblici e delle platee dei beneficiari". Cioè, un welfare meno esteso e rivolto a meno persone.