Se dai uno schiaffo a un bambino, in pubblico, qualcuno ti guarderà male anche se sei il padre. Se lo schiaffo è forte, è possibile che qualcuno intervenga in difesa del più piccolo.
In guerra, invece, si può.
In guerra puoi colpire gli ospedali pediatrici, e creare all'esterno file di creaturine con i capelli persi correndo dietro a una chemioterapia, creaturine tutte in fila, così magre da riconoscere con qualche difficoltà i maschi dalle femmine. Creaturine che tengono in mano i loro tubicini come l'orsacchiotto del conforto. È quanto è accaduto in Ucraina, anche questa notte, per mano dell'esercito russo.
In guerra, si può. In guerra puoi bruciare, mutilare, sparare, denutrire i più piccoli, togliere l'elettricità alle incubatrici e staccare i generatori di emergenza. E' quanto sta accadendo da mesi, in Palestina, per opera dell'esercito israeliano.
Sembra che in guerra prendano tutti maledettamente sul serio la frase: "Prima le donne e i bambini". Infatti colpiscono sempre prima loro, neanche fossero il target, o forse per qualcuno lo sono. Il finale comunque è sempre lo stesso: oltre il 90% delle vittime delle guerre sono civili, donne e bambini. Neanche il brivido della suspence, sempre la stessa storia.
Quando ammazzi un bambino, in tempo di pace, si chiama omicidio. Quando lo ammazzi in guerra, si chiama "effetto collaterale". Anche se, per la stessa percentuale di prima, potremmo dire che i bambini ammazzati sono invece l'effetto principale.
Facciamo un passo indietro: ricordate chi, anche in Italia, finse di credere a Putin che attaccava l'Ucraina per "denazificarla?"
Oppure chi ancora recita la litania della difesa israeliana, asserendo che quasi 40.000 morti, in Palestina, decine di migliaia di sfollati, reti fognarie distrutte, denutrizione, siano un prezzo per fermare Hamas?
Come siamo arrivati al punto che chiedere pubblicamente la fine di un massacro e la protezione di tutti i civili sia ritenuto un messaggio fazioso?
Provano a cambiare le parole, per distrarci. Pensare a un bambino con il volto sfigurato non è evidentemente facile neanche per l'assassino, e che la guerra faccia orrore lo capiscono anche i più piccoli. Per questo cambiano le parole. Per un periodo, da questa parte di mondo, le guerre le abbiamo chiamate "missioni umanitarie". Oggi, da qualche altra parte nel mondo, le chiamano "reazione al terrorismo", anche se somigliano più a una rappresaglia sui civili.
Siamo sempre stati bravi a commuoverci al TG, in attesa del prossimo bombardamento mirato, o della pubblicità.
Ma non ci sono soltanto le guerre, ci sono anche gli effetti delle guerre, e sono sempre i bambini e le bambine le prime vittime.
Nel 2001, nella foresta fra Polonia e Bielorussia, è morto di freddo un bambino profugo di un anno, che insieme ai suoi genitori cercava di oltrepassare la frontiera. Era novembre, proprio un mese prima che un altro bambino, più famoso, nascesse in una grotta e la cattolica Polonia lo venerasse.
Nel 2016 ci sono voluti tre distinti bombardamenti sul solito ospedale ad Aleppo, in Siria, per buttarlo giù. Ogni volta cadeva solo un pezzo, perché anche negli errori di mira ci vuole una specializzazione. Così lo hanno bombardato per tre volte, fino a che l'ospedale è crollato.
Non è una classifica e gli episodi sono migliaia, così finiamo per scordarceli. Siamo cinture nere delle guerre dimenticate, anche perché finiscono tutte alla stessa maniera, con "la povera gente che fa la fame", diceva Brecht. Siamo sempre a quel punto lì, siamo sempre "l'uomo della pietra e della fionda", scriveva Quasimodo.
Se oggi non si fermano neanche di fronte ai bambini, io temo, non si fermeranno di fronte a niente. I bambini, dopotutto, servono proprio a questo: a far capire al nemico che a loro non li fermerà nessuno.
Dovremmo ripartire tutti da quella vignetta con la testa tratteggiata e il corpo ferito, che si intitolava: istruzioni per capire cos'è la guerra. Per riuscirci, dovevamo inserire al posto di quella testa tratteggiata il volto di nostra figlia, o di nostro figlio. La guerra è esattamente quella cosa lì, dovremmo ricordarcelo.
Siamo un minuscolo puntino nell'Universo, neanche centrale, e ci spariamo addosso. Siamo la specie vivente più aggressiva di questa Terra, però anche la sola in grado di dipingere un quadro, o scolpire il marmo; siamo gli unici in grado di leggere un libro. Gli unici in grado di ripartire, di sprofondare negli inferi e poi risalire le vette. Siamo l'unica specie vivente che ha costruito armi così potenti da poter distruggere la Terra con sei o sette bombe piazzate bene.
Siamo gli unici che sentono il bisogno di un inno nazionale, ma anche gli unici in grado di cantare una canzone d'amore alla Luna.
E poi ci facciamo la guerra, pensate che spreco di bellezza.
Cosa si può dire, a chi oggi non si ferma neanche di fronte a un bambino, o a quindicimila bambini? Niente, forse non possiamo dire niente. Però possiamo dire qualcosa a noi stessi: dobbiamo smetterla di considerare sicuro quello che è più forte, amico quello che è più vicino, guerra un modo per raggiungere la pace. Dovremmo cambiare prospettiva due o tre volte ogni giorno, o una volta per sempre, imparando a incollare ogni giorno quel volto famigliare – quello a cui vogliamo bene più di qualsiasi altro – sopra quella vignetta con la testa del bambino tratteggiata.