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Diritti umani, porti sicuri e Ong: come si sta comportando l’Italia?

Migliorare la cooperazione nelle operazioni di soccorso in mare, assicurare lo sbarco tempestivo dei naufraghi, collaborare con le Ong evitando una retorica che le stigmatizza e mettere sempre al primo posto i diritti umani nelle politiche in materia: ecco alcune delle raccomandazioni fatte appena dieci giorni fa dal Consiglio d’Europa.
A cura di Annalisa Girardi
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Lo scorso 12 giugno la Sea Watch 3 soccorre 53 persone a largo della Libia. Dopo soli 6 giorni, in cui già si iniziava a delineare uno stallo destinato a durare molto più a lungo, il Consiglio d'Europa pubblica una serie di raccomandazioni rivolte agli Stati membri, esortandoli ad assumersi maggiori responsabilità nel soccorrere i migranti in mare e nel proteggere i loro diritti. Sono passati altri dieci giorni da quando la Commissaria per i diritti umani del Consiglio, Dunja Mijatović, ha chiesto ai Paesi dell'Unione europea in particolare di: potenziare in termini di efficacia e cooperazione le operazioni di soccorso nel Mediterraneo, garantire che gli sbarchi avvengano solo in quello che può essere considerato un porto sicuro senza che si verifichino inutili posticipi e ritardi, collaborare con le Ong coinvolte nelle azioni di ricerca e soccorso (Sar, dall'inglese ‘search and rescue'), evitare una retorica che stigmatizza e attacca gli attori che salvano vite umane in mare e nello specifico proprio le Ong, assicurare i principi di trasparenza e responsabilità rispetto alla cooperazione con Paesi terzi, e infine aumentare i meccanismi di reinsediamento per quanto riguarda i rifugiati.

L'attuazione di quanto richiesto dal Consiglio d'Europa sembra però ancora lontana. La Commissaria, pur riconoscendo che alcuni Paesi costieri siano stati lasciati soli nella gestione degli arrivi dei flussi migratori, afferma che questo non può in nessun modo giustificare politiche che mettano a repentaglio la vita e la sicurezza di esseri umani: "La protezione dei diritti umani dei rifugiati, richiedenti asilo o migranti, sia in mare che sulla terra ferma, deve sempre prevalere sulle scelte politiche". Per comprendere più a fondo il quadro giuridico che obbliga gli Stati alla cooperazione nelle operazioni di ricerca e soccorso, che regola gli sbarchi, l'individuazione di un porto sicuro e la collaborazione con le Ong, ambiti su cui si concentrano le raccomandazioni del Consiglio, Fanpage.it ha contattato un'esperta di diritto internazionale.

Garantire un efficace coordinamento di ricerca e soccorso

"Le norme sul diritto del mare sono chiarissime e prevedono l'obbligo di cooperazione. Il diritto del mare non impone ad uno Stato in particolare di concedere un porto di sbarco, ma vincola tutti gli Stati a cooperare nell’identificazione di un porto sicuro. Il diritto del mare prevede inoltre che il soccorso sia obbligatorio da parte dei capitani delle navi, ma anche degli Stati, sia quelli di bandiera che quelli costieri, che non devono fare nulla per ostacolare il soccorso. Qualsiasi ostacolo al soccorso in mare è un atto illecito dello Stato. È evidente che sequestrare le navi che effettuano i soccorsi, rifiutare gli accessi al porto, rifiutare addirittura l’accesso al mare territoriale, costituisce un insieme di politiche che sono volte a ostacolare il soccorso in mare. Poiché tutte le convenzioni internazionali rilevanti obbligano gli Stati ad adoperarsi per garantire soccorsi in mare efficaci, ostacolarli costituisce un atto illecito", ha spiegato Francesca De Vittor, docente di Diritto internazionale e diritti dell’uomo alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, a Fanpage.it. Invece di puntare il dito contro Amsterdam piuttosto che Berlino, il governo italiano avrebbe quindi dovuto cercare una soluzione per le persone a bordo, mettendo al primo posto la sicurezza dei migranti sulla nave e non condannandoli a un'impasse in mezzo al mare che dura da oltre due settimane.

In nome del Decreto sicurezza bis, il ministro dell'Interno Matteo Salvini parla di arrestare l'equipaggio e confiscare la nave, un'imbarcazione che addirittura andrebbe affondata secondo la deputata Giorgia Meloni. Tuttavia, se la normativa presuppone che si possano riportare migranti in Libia e allo stesso tempo negare l'accesso alle acque territoriali senza indicare un porto sicuro lungo la propria costa, allora si sta "violando l'obbligo di cooperare all'efficace svolgimento e alla rapida conclusione dei soccorsi, prestati in acque vicino all'Italia", continua De Vittor.

Assicurare lo sbarco sicuro e tempestivo delle persone soccorse

"Si potrebbe anche parlare di eventuali violazioni della normativa sullo sbarco dopo i soccorsi. Tutte le convenzioni che si occupano di soccorso in mare prevedono un obbligo di cooperazione nell’identificazione del porto di sbarco da parte di tutti gli stati rilevanti, cioè tutti i Paesi coinvolti nella vicenda, tra cui ovviamente l’Italia. La Sea Watch ha svolto il soccorso, e come porto di sbarco le è stato indicato Tripoli, dove non si può però portare nessuno, questo ormai è chiaro", aggiunge la docente. Una guerra civile in corso da mesi, campi di detenzione dove i migranti sono quotidianamente oggetto di violenza e trattamenti degradanti, nessun riconoscimento della Convenzione di Ginevra sui rifugiati: non si può riportare in Libia i migranti e la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, si è giustamente rifiutata di farlo. Ha quindi scelto di dirigersi verso Lampedusa, nonostante il Viminale continuasse a intimarle di tornare verso le coste libiche e rimasse fermo nel divieto di entrare nelle acque nazionali, figuriamoci attraccare al porto. Sarebbe dovuta andare in Germania o in Olanda, si è detto, in quanto comandante di una nave battente bandiera olandese e di proprietà di una Ong tedesca.

"Carola Rackete ha preso la rotta per Lampedusa perché quello era il porto sicuro più vicino. Non che il capitano abbia l'obbligo di dirigersi verso il porto più vicino: il comandante ha la facoltà di valutare quello che è il porto più idoneo, e in questo caso Lampedusa, oltre ad offrire il porto più vicino ea anche il luogo di sbarco che garantiva la rotta più sicura", afferma De Vittor. La destinazione più appropriata per portare a termine le operazioni di salvataggio e mettere i naufraghi soccorsi in sicurezza, in una situazione dove possano esercitare i loro diritti. "Sono gli Stati membri della Convenzione Sar che hanno l’obbligo di coordinare l'identificazione di un porto di sbarco sicuro nel più breve tempo possibile. Il capitano, cioè, deve essere liberato quanto prima della sua responsabilità, e deve poter far sbarcare le persone a bordo nel minor tempo possibile, con la minor deviazione possibile dalla sua rotta". È quindi legittima la scelta della capitana che dirige la nave verso il porto di Lampedusa, in quanto questo è il luogo più presumibilmente individuabile in base alle convenzioni internazionali. Non sembra possibile definire allo stesso modo l'azione delle autorità italiane, che oltre a non aver cooperato per trovare un porto sicuro pronto ad accogliere i naufraghi soccorsi, continuano a ritardare lo sbarco anche nel momento in cui la nave con i migranti a bordo si trova a qualche centinaio di metri dalla costa di Lampedusa. "Quanto alla pretesa, avanzata da alcuni per cui, di fronte al rifiuto italiano la comandante sarebbe dovuta andare in cerca di un altro porto altrove, essa non ha alcun fondamento giuridico: sta infatti agli Stati indicare al capitano indicare un luogo di sbarco sicuro e rapidamente raggiungibile, non spetta certo al capitando andarselo a cercare. Queste norme, tra l'altro, sono adottate proprop allo scopo di evitare che il comandante della nave vaghi per il mare da un porto all'altro, nella speranza che qualcuno lo accetti", spiega la docente.

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Prevenire la violazione dei diritti umani collaborando con Paesi terzi

Ma prima ancora di rifiutare un porto sicuro, il ministro Salvini, come anticipato, aveva avvisato la Sea Watch di obbedire alla Guardia costiera libica e riportare i naufraghi a Tripoli. Ma non è a questo tipo di azioni che il Consiglio d'Europa fa riferimento quando parla di collaborare con Paesi terzi per la salvaguardia dei diritti umani. "Questo è chiarissimo non solo perché lo raccomanda la Commissaria Mijatović, ma anche dal punto di vista del diritto italiano: infatti troviamo delle chiarissime pronunce in casi di vicende passate", afferma De Vittor. "In particolare la sentenza del Gip – Giudice per le indagini preliminari – di Trapani, che si è pronunciato alcune settimane fa sui migranti soccorsi dalla Vos Thalassa che avevano minacciato il capitano della nave quando si erano resi conto che li stava riportando in Libia. Il capitano era stato preso a spintonate, e nel timore che la nave venisse dirottata, aveva deciso di portare i naufraghi a bordo in Italia. Nei confronti delle persone avevano minacciato il capitano, all'arrivo in Italia c’è stato un atto di imputazione. Il Gip le ha però assolte dalla prima all'ultima, dicendo che il loro comportamento era giustificato per legittima difesa: si stavano infatti opponendo al pericolo di un danno ingiusto, cioè quello della lesione ad un loro diritto che si sarebbe verificata nel momento in cui fossero stati riportati in Libia".

La sentenza sancisce quindi una volta per tutte che riportare richiedenti asilo e migranti in Libia costituisce un atto illecito. La sentenza, precisa De Vittor, ha anche escluso una responsabilità da parte del capitano della nave, in quanto stava eseguendo in buona fede un ordine ricevuto. "Il problema è a monte, nel fatto che il capitano avesse ricevuto un ordine illegittimo. Quando sono preparati e attenti i capitani si oppongono agli ordini illegittimi, come ha fatto Carola Rackete, ma colui che esegue l’ordine può essere in buonafede. Ciò non toglie che l’esecuzione, come in quel caso, può rappresentare un’offesa ingiusta ai diritti dei migranti. I giudici italiani lo hanno chiaramente detto: in Libia non si può riportare nessuno".

Cooperare in modo efficiente con le Ong

La Sea Watch rimane bloccata di fronte a Lampedusa con 40 persone ancora a bordo, ma il porto è tutt'altro che chiuso. In queste ore almeno tre piccole imbarcazioni sono arrivate alle coste dell'isola, e i migranti sono stati trasferiti nelle apposite strutture di accoglienza. Una conferma di quello che è un accanimento ormai strutturale nei confronti delle Ong, pagato in primis dalle persone che queste soccorrono. Ma è un'avversione che può legittimare il divieto di accesso in acque nazionali? Qual è la base giuridica di questa negazione?

"L’atto amministrativo in questione, cioè l’interdizione di accesso al mare territoriale, fondato sul Decreto sicurezza bis, è un atto sul cui fondamento giuridico pesano dei seri dubbi. Ho dei seri dubbi per questa ragione", spiega De Vittor. "Il decreto afferma che il ministero dell’Interno possa vietare l’ingresso al mare territoriale per ragioni di sicurezza. Tuttavia, l’ingresso nel mare territoriale, per le convenzioni sul diritto del mare, non è qualcosa che debba essere autorizzato a priori. Le navi hanno diritto al passaggio inoffensivo nel mare territoriale. Entrano e passano. È un diritto che viene strettamente riconosciuto dal diritto del mare, che non impone alle navi di aspettare una qualche autorizzazione. Il passaggio non è ritenuto inoffensivo se la nave viene utilizzata per azioni che minacciano la sicurezza nazionale: fra queste è indicato il caso in cui nel mare territoriale la nave sia usata per lo scarico di merci o persone in violazione della normativa sull'immigrazione. Ma una situazione del genere si verifica ad esempio quando una nave entra nel mare territoriale e di nascosto fa sbarcare i migranti eludendo i controlli di frontiera. Ma chiaramente non è questo il caso". In questo caso, infatti, si tratta di una nave che è arrivata verso il porto chiedendo esplicitamente un'autorizzazione di ingresso e indicando già quante persone ci sono a bordo. Persone che sono state soccorse secondo un obbligo non solo morale, ma anche imposto dal diritto del mare.

Favorire rotte accessibili, sicure e legali verso l'Europa

L'ultimo punto messo in evidenza dalle raccomandazioni del Consiglio d'Europa richiede agli Stati membri un impegno maggiore nel favorire corridoi umanitari legali e tutelati verso l'Europa. Un elemento che sembrerebbe riguardare il caso Sea Watch solo in parte. Certamente se ci fossero le vie adeguate per trasferire in luoghi sicuri persone vulnerabili e coloro che hanno diritto alla protezione internazionale, ci sarebbero anche meno partenze per la pericolosa rotta del Mediterraneo centrale. Ma non per questo chi la intraprende deve essere sottoposto ad un trattamento che lesiona la dignità umana. "Da parte dell’Italia ci sono responsabilità evidenti, e con responsabilità intendo violazioni. Non solo delle norme sul soccorso in mare, ma anche e soprattutto delle norme sui diritti dell’uomo. Il comportamento italiano è in violazione del diritto internazionale", conclude la docente De Vittor. "Non è escluso che nelle sedi opportune si possano emanare condanne contro il nostro Paese: per esempio davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo si potrebbe far valere una violazione dell’Articolo 5 della stessa CEDU, in quanto queste persone sono private della proprie libertà e tenute a bordo della nave come se fossero in ostaggio, e dell’Articolo 3, perché siamo di fronte quanto meno ad un trattamento inumano e degradante".

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