Non c’è un esempio migliore della questione migranti per spiegare cosa comporti il passaggio dall’opposizione al governo per un partito della destra populista o sovranista. Non c’è solo la mera constatazione di come diventi improvvisamente complicato e di difficile attuazione tutto quello che sembrava semplice e immediato dagli scranni dell’opposizione parlamentare, dal palco di una piazza o dalle bacheche di un social network. C’è anche la genuina sorpresa di trovarsi a fare i conti con il lascito di errori di governi amici, con le conseguenze di scelte scellerate fatte dai propri referenti politici in Europa o semplicemente con la constatazione di come le proprie ricette sul piano pratico non funzionino.
Solo qualche mese fa si blaterava di fantomatici e immediati blocchi navali, di problemi strutturali che sarebbero stati risolti in pochi mesi, di missioni in territorio libico, di pocket lunch, di decine di migliaia di rimpatri, di rivoluzioni immediate nel sistema dell'accoglienza, di modello australiano. Dopo i fallimenti di Piantedosi, l'aumento degli sbarchi e i macroscopici errori di gestione dell'esecutivo, Meloni ha invece potuto scoprire che “l’immigrazione non è un tema a parte rispetto al quadro geopolitico complessivo”; ha intuito la brutalità dei push factor, tanto da ammettere che ci sono fattori imprevedibili, come la guerra in Ucraina, che ha “un impatto multidimensionale, con la crisi alimentare e delle materie prime che impatta su milioni di persone nelle aree più povere dell’Africa”; ha capito che anche in luoghi come Libia e Tunisia “se le aspirazioni al benessere e alla giustizia sociale non trovano risposte concrete, il fallimento e il caos sono dietro l’angolo”; ha constatato che servono iniziative enormi, che richiederanno tempo e fatica, mentre “noi faremo la nostra parte contrastando i trafficanti di esseri umani, salvando vite in mare, promuovendo gli ingressi legali e accogliendo chi ha davvero diritto alla protezione internazionale, costruendo un futuro in Africa”. Sono sue parole, nell'intervista rilasciata al direttore de Il Foglio Claudio Cerasa. Certo, c'è ancora qualche cedimento alla propaganda (quel "non possiamo permettere che siano i trafficanti a scegliere chi arriva in Italia" che stride con l'insufficienza degli interventi sui flussi legali e opera una pericolosa sovrapposizione fra scafisti, trafficanti e migranti) e resta il vizio degli annunci epocali (il piano Mattei per l'Africa, l'Europa che "finalmente" ha capito che deve aiutare l'Italia), ma sarebbe stato oggettivamente chiedere troppo.
Già, perché anche senza considerarne gli aspetti ideologici, politici o etici, il problema di fondo è che le idee della destra neanche funzionano, non sono adatte a gestire la complessità della questione in ballo e non sono minimamente di aiuto a chi opera sul campo. Quando ha avuto compiti di governo, la destra non si è limitata a trattare male le emergenze o l'ordinaria amministrazione, ma ha gettato le basi per rendere ingestibile il fenomeno migratorio. Dalla Bossi – Fini, colpevolmente preservata dagli esecutivi di centrosinistra, ai decreti Salvini, è una lunga storia di disastri combinati dalla destra in materia di partenze/sbarchi/accoglienza dei migranti, praticamente in ogni ambito, dalla burocrazia ai meccanismi di integrazione, passando per il coinvolgimento dei partner europei fino al quadro legislativo complessivo su rimpatri e redistribuzioni. La guerra senza quartiere alle Ong, il disimpegno lento ma costante nelle operazioni di search and rescue, l'idea che si possa semplicemente "convincere" a non partire chi sa di non avere futuro nella propria terra, i rimpalli di responsabilità con gli altri Paesi europei e le cervellotiche regole d'ingaggio per gli operatori in mare, non sono solo eticamente e umanamente discutibili, sono anche tecnicamente inefficaci, di nessun aiuto concreto sul piano pratico perfino per i controversi scopi per cui sono stati pensati. L'esempio più recente è dato dalle modifiche alla protezione speciale, che avranno come unico risultato quello di aumentare il numero di irregolari nel Paese e di complicare la vita a migliaia di persone che magari hanno già cominciato percorsi di integrazione.
La dichiarazione dello stato di emergenza del governo Meloni è la plastica testimonianza del paradosso di cui parliamo. La vera ragione per cui si utilizza uno strumento del genere, infatti, non è da rintracciarsi nell'incremento di sbarchi e arrivi (che c'è, ma non in misura vertiginosa, vale la pena di ribadirlo), bensì nel timore dell'imminente collasso del sistema di accoglienza. Il punto è che si tratta di una situazione creata e alimentata dalle mancanze e dalle lacune del governo, più che da flussi improvvisi o di proporzioni non gestibili.
In primo luogo perché da anni ormai non ci si occupa di programmare seriamente l’accoglienza. Eppure ci sarebbe anche una legge, la 142 del 2015, che imporrebbe al governo di predisporre annualmente (o anche per intervalli più brevi) un piano nazionale per l’accoglienza, in modo da avere chiari i fabbisogni e le criticità. A mancare è proprio l’idea di trattare l’accoglienza con strumenti ordinari e non emergenziali. Per citare solo un aspetto, la mancanza di posti e strutture per accogliere i migranti è solo teorica. Ci sono migliaia di sistemazioni utili, come mostrano alcuni report dettagliati, ma soprattutto c’è la possibilità di mettere mano a provvedimenti che hanno letteralmente devastato il comparto accoglienza.
Anche in questo caso, infatti, ci troviamo a scontare scellerati interventi normativi operati da governi di chiara matrice populista. Durante il Conte I è Matteo Salvini a cancellare de facto il sistema degli Sprar, l’unico in grado di coniugare accoglienza, integrazione e rispetto della dignità della persona. È sempre Matteo Salvini a ridurre fondi e dotazioni al sistema dei Cas, scoraggiando la nascita di piccoli centri e rendendo sostenibili solo i grandi centri, quelli in cui le condizioni sono peggiori e le gestioni più problematiche. Una scelta politica che semplicemente non ha funzionato sul piano pratico. Il sistema è di nuovo in affanno, le prefetture denunciano che gran parte dei bandi va deserto e Regioni e Comuni giocano a fare scaricabarile. Sul punto, Lamorgese ha fatto poco e male, senza mai dare l'impressione di voler cambiare radicalmente il sistema costruito dal suo predecessore. I rimpatri sono fermi al palo, con numeri simili di anno in anno, a ulteriore testimonianza di come gli slogan e le promesse non funzionino (in molti casi dovremmo dire "per fortuna"…).
Lo stato d'emergenza, con la previsione degli affidamenti "in deroga" e con l'ampliamento dei margini di azione dei prefetti, serve principalmente a questo. A dare al governo la possibilità di riparare ai propri errori. Commettendone altri.