Lettere e lacrime, il ricordo di Aldo Moro
Settimane di prigionia, di speranze, preghiere, ed appelli disperati all'indirizzo degli amici di un tempo: poi la fine, nel baule posteriore di una Renault 4. Il destino toccato in sorte a quello che Carmelo Bene definì «l'unico politico decente che abbia mai avuto questo Paese» fu il più tragico che un uomo possa immaginare. Il cadavere di Aldo Moro in Via Caetani, non lontano dalle sedi di partito di PCI e DC, un'immagine indimenticabile ed una lezione durissima per tutti coloro i quali scelsero di non patteggiare perché lo Stato non può scendere a compromessi con dei sequestratori: era il 1978, «erano altri tempi, era un'altra Italia» ma la trasformazione era ormai alle porte. Il Paese delle formichine risparmiatrici, umilmente e tenacemente capace di farsi strada tra i giganti senza perdere la propria identità si avviava con crescente presunzione verso gli anni di un consumismo che non poteva permettersi, sull'arido campo del declino degli ideali, un appiattimento mascherato da benessere e capace di risuonare come il vuoto. La serietà incarnata da quel volto serenamente cauto sarebbe diventata un remoto passato di un Paese sempre più votato allo spettacolo televisivo (nell'accezione più negativa possibile che tale espressione può indicare) come stile di vita. E la morte di Aldo Moro fu uno di quegli spartiacque, di quei bivi della storia dinanzi ai quali è lecito pensare con sicurezza che, se si fosse presa un'altra direzione, allora sì che le cose sarebbero state diverse: forse non migliori, perché questo è impossibile dirlo. Ma radicalmente diverse.
Perché con Aldo Moro si spegneva il magnifico sogno che lo statista coltivava, quello di un'Italia solidale che coltivava la propria eterogeneità e diversità come un valore aggiunto e non come una macchia nera da cancellare nel tentativo di un'adesione acritica a “modelli occidentali” a cui uniformarsi con timore reverenziale e servile: ma quel sogno non piaceva a tanti, non solo alle Brigate Rosse. Non piaceva a chi lasciò vigliaccamente il Presidente a spendere le proprie ultime drammatiche settimane a scrivere quelle 86 lettere, su alcune delle quali hanno lavorato nell'ultimo anno gli esperti l'Istituto Centrale di Restauro romano e che oggi saranno in mostra al Quirinale in occasione della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Pagine deteriorate dal tempo e dalla presenza di cloruro di sodio sulla carta, forse sudore o forse lacrime come lasciano pensare alcune sbavature dell'inchiostro, ricordi tragici di un uomo improvvisamente fragile come tutti gli altri dinanzi alla paura: non più il Presidente degli italiani, ma una persona, inascoltata, che chiedeva aiuto a quelle istituzioni e a quello Stato di cui era stato elevato e fiero “servitore”. Termine troppo utilizzato e sempre più svuotato, in questi anni di bassezze e qualunquismi, ma denso di significati in relazione all'uomo Aldo Moro: colui che immaginava il Governo di “solidarietà nazionale”, morto il quale il posto per gli interessi individuali si sarebbe finalmente trovato senza dover troppo faticare.
Si racconta che il Presidente Aldo Moro, quando negli anni '50 era Professore ordinario di diritto penale all'Università di Bari, fosse estremamente temuto dai suoi studenti in virtù della propria inflessibile severità: al punto da persuadere indirettamente coloro i quali non se la sentivano di affrontare esami con lui a scegliere una facoltà alternativa o un altro ateneo. Come giovani ventenni pronti a cambiare università pur di non affrontare la rigidità di un docente, anche una parte dell'Italia dovette fare i conti con quella figura “scomoda” nella sua integrità: e scelse di eliminare Aldo Moro. Lo scelsero i brigatisti e lo scelsero coloro i quali trassero dalla morte del Presidente la propria fortuna: tutti quelli che seppellirono il sogno di unità dell'uomo venuto dal remoto Salento, un sogno che rifletteva le istanze del popolo italiano riflesse nel voto come mai nessuno, prima e dopo, ha più avuto il coraggio di fare. Complici sullo sfondo, muti ed egualmente colpevoli, lesti a coprire di terra il più rapidamente possibile la speranza per un futuro mai nato. Il 9 maggio del 1978, dinanzi al bagagliaio della Renault 4 parcheggiata in via Caetani dove il Presidente fu rinvenuto, la democrazia celebrò il proprio mesto rito funebre, conscia dell'impossibilità di veder spuntare all'orizzonte un nuovo Aldo Moro che, quanto meno, portasse avanti le sue idee. Vittima delle Brigate Rosse e vittima degli interessi altrui (soprattutto di quanti gli erano “vicini”), mentre piangendo, forse, scriveva le sue ultime disperate parole.