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Legge sul “Dopo di noi”, perché le Regioni hanno sprecato 226 milioni di euro in sette anni

La legge sul “Dopo di noi” del 2016 mira ad aiutare i figli con disabilità gravi: quando perdono il supporto dei genitori, vengono inseriti in percorsi di coabitazione invece di finire dentro residenze assistenziali. Ma molte Regioni non riescono ad applicarla, e ogni anno milioni di euro restano inutilizzati.
A cura di Luca Pons
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La legge sul Dopo di noi è stata approvata dal Parlamento nel giugno 2016. Ha risposto a una situazione specifica, che coinvolge decine di migliaia di individui in Italia: quella in cui una persona con grave disabilità perde i genitori, o comunque il sostegno della sua famiglia, e non ha più nessuno che la possa assistere nella vita quotidiana.

Normalmente, in queste situazioni alla persona veniva assegnato un posto letto in una struttura assistenziale. Così guadagnava un aiuto nelle attività più basilari, ma perdeva gran parte della propria autonomia e indipendenza per il resto della vita. Accade ancora in molti casi, ma la legge 112/2016 (quella sul Dopo di noi) ha cercato di spingere verso un modello diverso: dei percorsi individuali per creare autonomia, separarsi gradualmente dalla famiglia già prima che diventi obbligatorio (infatti è detta anche legge sul "Durante e dopo di noi"), e infine riuscire ad abitare in luoghi il più possibile simili a una casa vera e propria.

Come funziona la legge sul Dopo di noi e perché ci sono dei problemi

Visto che la legge riguarda l’assistenza sociale, il grosso del lavoro spetta alle Regioni. Lo Stato distribuisce alle Regioni i soldi previsti – la quantità viene decisa dal governo di anno in anno – e loro fanno quasi tutto il resto: entro due mesi emanano dei bandi per il territorio e poi verificano che le attività previste vengano effettivamente svolte. Il governo dà le linee generali da seguire, e in particolare stabilisce i Lep (i livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti) ma in ogni Regione i dettagli vengono decisi a livello locale.

Dopodiché, ciascuna amministrazione regionale fa un resoconto di come ha usato i soldi e comunica le informazioni al ministero del Lavoro: quanti fondi ha impiegato, in che modo, quali tipi di progetti ha finanziato e quante persone sono state aiutate. Il ministero, infine, controlla che tutto sia in linea con quanto previsto dalla legge.

Questo è come funziona in teoria la parte principale della legge. Nella pratica, però, dal 2016 a oggi ci sono stati diversi problemi. La Corte dei conti, con una relazione stilata nel dicembre 2022, ne ha messi in evidenza molti.

Dal 2016 al 2022 sono rimasti inutilizzati 226 milioni di euro

Il primo problema riguarda l’utilizzo del denaro. Tra il 2016 e il 2022, i vari governi hanno stanziato circa 466 milioni di euro per gli interventi previsti dalla legge sul Dopo di noi. Questi sono i soldi stanziati, cioè quelli che lo Stato ha messo da parte con l'intenzione di distribuirli alle Regioni.

Ma ogni Regione può ricevere i fondi solo se ha già mandato il suo resoconto al ministero. Per farlo ha due anni: ad esempio, nel 2018 ha avuto i soldi solo chi aveva descritto nel dettaglio le spese fatte nel 2016, nel 2019 chi era in regola con i fondi del 2017, eccetera.

Dal 2018, quando è entrato in vigore questo obbligo, al 2020, ben 74 milioni di euro non sono stati erogati – cioè lo Stato li ha messi da parte, ma poi non sono stati dati a nessuno – perché le Regioni non avevano rispettato le scadenze. A questi si aggiungono i fondi stanziati per il 2021 e per il 2022 (76,1 milioni di euro per ogni anno): anche questi, come riportato dalla Corte dei Conti, non sono ancora stati erogati perché mancano i resoconti delle Regioni.

Nel complesso, di quei 466 milioni stanziati in totale, solo 240 sono effettivamente arrivati a destinazione. Poco più della metà. Il risultato è che, secondo la Corte, circa 8mila persone con disabilità sono state aiutate in questi anni. La platea prevista dalla legge era tra le 100mila e le 150mila persone.

Solo sei Regioni hanno avuto tutte le risorse che gli sono state assegnate negli anni, stando alla relazione: Abruzzo, Emilia-Romagna, Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Toscana e Piemonte. Tutte le altre, chi più e chi meno, hanno avuto delle mancanze e di conseguenza hanno ricevuto meno fondi. La quantità di soldi non erogati, peraltro, è andata aumentando ogni anno: dai 4,7 milioni di euro del 2018, ai 50,7 milioni del 2020.

Dove finiscono i soldi che le Regioni non rendicontano

Il secondo problema è quello del denaro che viene erogato alle Regioni, e poi ‘sparisce’ perché le amministrazioni regionali non fanno alcun resoconto di come l'hanno utilizzato. I fondi non rendicontati sono passati da 2,4 milioni di euro nel 2017, a 10,6 milioni di euro nel 2018 (su un totale di 46,3 erogati).

Per il 2018, il buco è dovuto ad alcune Regioni che hanno fatto un resoconto parziale (Veneto e Marche) e diverse altre che non hanno comunicato nulla: la Corte dei Conti cita Basilicata, Calabria, Molise, Puglia, Sicilia, Valle D’Aosta. La Corte dei Conti citava anche la Lombardia, con 8 milioni e mezzo di euro ‘spariti’ senza riscontro, ma Fanpage.it ha avuto conferma dal ministero del Lavoro che, dopo la pubblicazione del rapporto della Corte, "sono state indicate dalla regione Lombardia le aree prioritarie di intervento, le soluzioni alloggiative nonché il numero dei beneficiari degli interventi messi in campo" con le risorse del 2018.

Secondo la Corte, forse le Regioni hanno problemi nell’attività di rendicontazione, oppure le difficoltà arrivano proprio nel mettere in campo i soldi ricevuti e usarli. Il sistema della legge, infatti, prevede di coordinare molti livelli diversi – dallo Stato, alla Regione, ai Comuni, agli altri enti locali e del Terzo settore – e può risultare complicato da applicare.

Cosa devono fare il governo Meloni e le Regioni per migliorare la situazione

Per Maria Chiara Gadda, deputata di Italia viva che ha partecipato all'approvazione della legge nel 2016, "il primo problema è la disomogeneità tra le Regioni". Oltre alla rendicontazione mancante, "spesso ci sono norme molto diverse in tema di servizi sociali da una Regione all'altra", ha spiegato Gadda a Fanpage.it.

Non solo: "Oltre ai fondi nazionali, alcune Regioni hanno messo risorse proprie, altre proprio no. Poi, le politiche dovrebbero essere co-programmate con gli enti del Terzo settore: in certe Regioni questo è avvenuto, altre sono molto indietro". Moltissime associazioni hanno avuto "problemi a relazionarsi con gli enti pubblici, perché questi avevano una scarsa conoscenza della norma e non c'era collaborazione".

Le soluzioni mancano da anni, e dovrebbero coinvolgere anche il governo: "Serve un monitoraggio più attento e continuo: il ministero del Lavoro e quello della Disabilità dovrebbero fare una relazione al Parlamento ogni anno sull'attuazione della legge, e in questi sei anni ce ne sono state solo due: una nel 2017 e una nel 2020″.

In più, "la legge prevede che la presidenza del Consiglio faccia delle campagne informative, per far sapere alla popolazione che la legge esiste e come funziona: andrebbe fatto. E per il personale delle pubbliche amministrazioni serve una formazione specifica e continua. Non può essere che ci sia una legge e poi chi la deve applicare non sappia come farlo, o come collaborare con le associazioni che lavorano in quel settore".

Anche per quanto riguarda le Regioni, dovrebbe essere lo Stato a intervenire: "Com’è possibile che una Regione non riesca a rendere conto, da un anno all’altro, di fondi che coinvolgono qualche decina di progetti e qualche centinaia di persone? Perché l’Abruzzo e il Piemonte ci riescono, e la Lombardia o la Puglia no?", ha chiesto Gadda. "Se sono meccanismi troppo complicati se ne parli nella conferenza Stato-Regioni, si possono semplificare. Se no, io credo che in certi casi si dovrebbe arrivare a una sostituzione: se le risorse non vengono usate nel modo giusto, procede lo Stato con bandi diretti".

Alessandra Locatelli, la ministra per le Disabilità del governo Meloni – e prima, dal gennaio del 2021, assessora alle Disabilità in Regione Lombardia – ha annunciato nelle scorse settimane che convocherà un tavolo di confronto. Il ministero del Lavoro ha detto a Fanpage.it che, grazie alle risorse che il Pnrr ha previsto per l'autonomia delle persone con disabilità, c'è stata nell'ultimo anno "straordinaria ed effettiva partecipazione attiva" di tutti gli enti, comprese le Regioni, e che questo porterà in futuro a un "notevole incremento delle attività e del numero di beneficiari" anche per la legge sul Dopo di noi.

Le associazioni che hanno tappato i buchi lasciati dallo Stato

Secondo la Corte dei Conti, poiché solo poche Regioni hanno potuto avere un flusso costante di denaro negli anni, è stato difficile finora garantire alle associazioni un sostegno regolare. Questo è un problema soprattutto quando bisogna programmare dei percorsi di sostegno che, per loro natura, durano anni.

Per questo, in molti casi, le famiglie di persone con disabilità e le associazioni del Terzo settore hanno preso il posto dello Stato e hanno cercato di compensare le mancanze. Roberto Speziale, presidente di Anffas (Associazione nazionale di famiglie e persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo) ha spiegato come a Fanpage.it.

La legge sul Dopo di noi è arrivata "dopo molti anni in cui le famiglie coinvolte avevano chiesto di intervenire", per far "vivere i figli con disabilità – se lo desideravano – in normali case private, e non più soltanto nelle residenze assistenziali", ha detto Speziale. Raccogliendo le loro richieste, Anffas "è stata tra i principali artefici di questa legge".

La grande novità è stata questa: "Prima della legge 112 non era possibile, per norma, far vivere una persona con disabilità in una casa civile. O perlomeno, se ciò avveniva, quella persona perdeva il diritto ad accedere ad alcune risorse. Oggi non è più così".

Perciò, dal punto di vista dell'iniziativa privata la norma è stata "una rivoluzione copernicana", ha detto Speziale. Anche se "tredici Regioni su venti  non hanno assolutamente dato attenzione a questa legge", soprattutto in queste Regioni "c'è stato un fiorire di iniziative private legate alla legge 112, che hanno aggregato le famiglie".

Così, rispetto alle stime della Corte dei conti, secondo quanto risulta ad Anffas "si sono attivati percorsi per almeno 30mila persone con disabilità, nelle varie misure previste dalla norma", che in molti casi non ricevono i fondi previsti dalla legge e fanno da soli. "Se ci sono due genitori anziani che hanno un figlio con disabilità, il bisogno è immediato. Non è che si possano aspettare i ‘comodi’ della pubblica amministrazione. Molti si sono attrezzati, magari sperando in un futuro di poter ricevere i fondi della legge 112″, ha concluso Speziale.

Resta comunque almeno un aspetto molto critico: "Ci sono circa 120mila persone con disabilità che vivono in strutture istituzionali. La legge 112 prevedeva percorsi di de-istituzionalizzazione, ma da quel lato la situazione non è cambiata, le iniziative sono davvero poche".

L'esempio virtuoso a Pavia: "Qui la collaborazione con il pubblico funziona, ma tutti devono mettere i fondi"

Uno dei casi in cui la cooperazione tra associazioni e Regione ha funzionato è la cooperativa Come noi, in provincia di Pavia, che portava avanti progetti di coabitazione già dal 2013. Il direttore Mario Bollani, raggiunto da Fanpage, ha spiegato: "Prima eravamo in un vuoto normativo, invece dopo abbiamo creato un modello di collaborazione con gli enti pubblici. La Regione ha preso quello che già esisteva e ci ha lavorato per allargarlo".

Con la legge sul Dopo di noi "è cambiato tutto. Ci ha messo di fronte alla prospettiva di personalizzare tutti gli interventi. Mandare a coabitare tre, quatto o cinque persone è completamente diverso dall’inserimento in una struttura residenziale. La vita a casa è un altro tipo di vita. In una struttura residenziale, se una famiglia vuole organizzare una festa di compleanno, o la spaghettata di mezzanotte, è dubbio che possa farlo, mentre con la coabitazione è la norma. È un lavoro impegnativo, anche perché i nostri operatori hanno dovuto cambiare completamente approccio, ma oggi non sapremmo più tornare indietro".

Un punto importante, per Bollani, è che nel suo territorio il modello ha funzionato anche perché "i Comuni hanno garantito le risorse necessarie", che poi sono state "integrate dalla legge 112. In altri territori, anche in altre province della Lombardia, si è pensato di impostare la coabitazione solo con le risorse della legge, ma è stato un errore di interpretazione colossale. Quei fondi devono integrare le risorse già esistenti, serve comunque uno sforzo della Regione e del Comune".

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