La differenza di valutazione non avrebbe potuto essere più ampia, come del resto era avvenuto anche nelle ultime "manovre" di un certo spessore. Da una parte il Governo che, sia pure evitando toni trionfalistici, rivendica il risultato del lavoro coordinato da Saccomanni e sottolinea come "per la prima volta" non si siano messe le mani nelle tasche degli italiani (per la verità il claim non è originalissimo), senza procedere a quel paventato taglio della Sanità che sarebbe stato difficilmente sostenibile e che avrebbe avuto ripercussioni anche nella percezione della legge di stabilità da parte dell'opinione pubblica.
Dall'altra, sia pure da opposti versanti, le critiche di Confindustria, imprese e Sindacati che concordano nel giudizio complessivo di una manovra "debole, insufficiente ed inadeguata a rispondere alle esigenze del Paese". A cominciare, sin dalle prime anticipazioni della serata di ieri, è la Cgil, che parla di una legge in cui "mancano chiari segnali di equità e indicazioni sulla ridistribuzione del reddito, mentre sono insufficienti le risorse destinate alla restituzione fiscale per i lavoratori". Ancora più duro Angeletti della Uil che si scaglia contro il blocco della contrattazione per il pubblico impiego per tutto il 2014 (che si aggiunge alla proroga, sia pure in maniera più blanda, del turn over): "Il Governo aveva detto stop ai tagli lineari, ma cosa c'è di più lineare di una misura che colpisce tutti i lavoratori dipendenti, qualsiasi lavoro facciano, qualunque importanza abbia il loro lavoro per la vita dei cittadini?". Ma ad essere insoddisfatta è anche Confindustria, secondo cui la legge ci "allontana dall'obiettivo di dare vigore alla lenta ripresa che si sta delineando. Sarebbe indispensabile che gli interventi siano disegnati in un arco temporale pluriennale e con dimensioni crescenti nel tempo".
In mezzo chi considera il complesso del provvedimento come "né una stangata, né una frustata", per citare Giannini che su Repubblica fa una buona sintesi della questione:
Il risultato di questa complessa alchimia politico-finanziaria ha almeno il pregio di non essere una "mannaia" sulla testa dei contribuenti. Su questo non si può dare torto a Letta. Ma se non c'è la stangata, appunto, purtroppo non c'è neanche la "frustata". Gli stimoli allo sviluppo si intuiscono, ma sono obiettivamente modesti. "Pagheremo meno tasse", dicono in coro premier e vicepremier. Ma non ce ne accorgeremo, se lo sgravio si sostanzia in un calo della pressione tributaria di meno di un punto di Pil nel prossimo triennio. E qui c'è il limite più serio di questa manovra. La grande operazione di abbattimento del cuneo fiscale è deludente. E ancora una volta, nell'affannosa mediazione tra le pressioni dei sindacati e le pretese di Confindustria, non vince nessuno, e rischiano di perdere tutti.
Insomma, senza girarci intorno, le critiche si concentrano proprio sulle mezze misure adottate dal Governo, testimonianza emblematica di come le larghe intese, in presenza di margini di manovra ridottissimi (anche se in questo caso Letta e Saccomanni hanno usufruito finanche di una sorta di "bonus" dovuto all'uscita dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo), non possono rispondere all'esigenza di maggiore incisività e concretezza nelle scelte. Perché obbligano a costanti e continui compromessi che impediscono di sgombrare il campo dai tentennamenti ed operare scelte decise. Il taglio del cuneo fiscale è un esempio emblematico, con un dimezzamento della dotazione per il 2014 che in pratica regalerà in media 100 euro in più all'anno ad ogni lavoratore dipendente (al netto della discussione in Parlamento che potrebbe riservare altre sorprese); allo stesso modo in cui (senza entrare nel merito) lo è lo stop ai tagli alla Sanità (anche se, per una serie di ragioni bisognerebbe parlare di un rinvio dei tagli, visto che, per citare il Sole 24 Ore, "la carta vincente giocata in Consiglio dei ministri da Lorenzin è stata in sostanza quella di affidare al «Patto per la salute» tra Governo e Regioni, da siglare entro fine anno, quell'operazione di rilancio e di efficienza del Ssn ormai improcrastinabile").
C'è poi il brodino caldo del Welfare. Poca roba, o meglio, non una inversione di marcia rispetto al passato: "rifinanziamento del 5 per mille con 380 milioni; 300 milioni per il fondo politiche sociali; 250 milioni per il fondo per i non autosufficienti; 100 milioni per i lavoratori socialmente utili; mancano invece i 330 milioni per i sussidi in deroga (soldi necessari entro il 31 dicembre 2013), mentre si sceglie di rifinanziare la social card con 250 milioni di euro.
Sul fronte degli investimenti vale lo stesso discorso: un brodino riscaldato che probabilmente eviterà il peggioramento del malato, ma che certamente non lo avvia alla guarigione. In generale, vale la pena di riportare il giudizio elaborato in maniera completa e coerente da Riccardo Realfonzo sul Fatto:
Le osservazioni appena fatte ci portano alla filosofia di fondo della manovra del governo. Si tratta di una manovra nella quale complessivamente alcune piccole riduzioni della pressione fiscale vengono finanziate con altrettante riduzioni della spesa pubblica. […] Ebbene, qualunque manovra anche piena di buone intenzioni ma che si muova dentro la cornice attuale dei vincoli non può riuscire a invertire i processi di divergenza in atto, e quindi a metterci al passo delle aree centrali d’Europa. Con la certezza che presto o tardi, in assenza di un cambiamento delle politiche europee, il gioco dell’euro salterà. Insomma, se è pur vero che il taglio del cuneo fiscale va nella direzione giusta, la sua collocazione dentro la “filosofia vincolista” della finanza pubblica ne sterilizza i magri effetti positivi, e la rende una medicina del tutto inadeguata al male devastante che viviamo, un po’ come l’aspirina contro il cancro.
Del resto, il discorso è sempre lo stesso: manca la capacità di operare scelte nette. Perché se si sceglie di rinunciare a cuor leggero alla tassazione sulla prima casa (che c'è, lo ripetiamo, nella quasi totalità dei Paesi europei e non solo), se si continua a mantenere bassissima la tassazione sulle rendite finanziarie (è saltata all'ultimo momento la norma che prevedeva l'aumento dell'aliquota dal dal 20 al 22% quella sui redditi da capitale dal 12,5 al 20% quella sui frutti dei contratti di assicurazione), se si immagina che il "bilancino" basti a riportare serenità nelle famiglie, allora probabilmente non si ha la contezza di quanto la percezione della situazione da parte dell'opinione pubblica sia "emergenziale". Una percezione alla quale ha contribuito in primo luogo la politica. Strumentalizzando a fini di consenso elettorale alcuni provvedimenti (lo ripetiamo, il braccio di ferro sull'Imu, mentre nel decreto lavoro ad esempio si parlava di meno di un miliardo di euro, è stato indecente) e utilizzando toni propagandistici e demagogici con enorme irresponsabilità. Il tutto mentre la crisi affondava i tentacoli sull'intero sistema – Paese. E ora nessuno può farsi bastare un "mancato aumento delle tasse".