Il modo in cui si è giunti alla rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica è la dimostrazione più chiara di ciò che da tempo proviamo a non ammettere: il livello attuale della classe politica italiana è imbarazzante. Non c’è molto altro da aggiungere: la gestione del Quirinale è la sconfitta dei partiti, la resa di leader incapaci di controllare i propri eletti e soprattutto di disegnare percorsi logici e coerenti che potessero portare a eleggere nomi autorevoli e condivisi. La nomina di Mattarella non è determinata da conflitti istituzionali o da contingenze particolari, ma unicamente dall’incapacità dei leader politici di trovare un accordo di senso. Un'emergenza politica, che i singoli parlamentari, anche di seconda e terza fascia, si sono incaricati di colmare, appigliandosi all'unico riferimento autorevole che ci era rimasto, nel vuoto cosmico di figure in grado di convincere e unire: il Presidente Mattarella. E tocca finanche ringraziare loro, per aver offerto ai propri leader l'unico modo per uscire dalla crisi.
La statura dell'attuale e futuro inquilino del Colle non si discute, ma non per questo bisogna tacere delle enormi problematiche della sua rielezione. Che è e resta soluzione di corto respiro, di natura emergenziale, che va nella direzione opposta rispetto alla normalizzazione e al ripristino delle prassi democratiche e istituzionali. Lo aveva spiegato più volte lo stesso Mattarella: la rielezione è una forzatura dei dettami costituzionali, perché la forma repubblicana implica la “durata temporanea” delle cariche politiche e sette anni sono sempre stati considerati sufficienti e ragionevoli. Il punto centrale è che consentire al Presidente della Repubblica di sviluppare una sua politica indipendente per così tanto tempo andrebbe a incidere sul bilanciamento fra i poteri, cardine del nostro sistema democratico. Normalità, continuità istituzionale, prassi democratica e rispetto dei ruoli e delle funzioni: concetti che abbiamo sacrificato per colpa dei limiti della classe politica e probabilmente anche dell'assottigliarsi di quella pattuglia di "riserve della Repubblica", da cui in passato si è attinto a piene mani.
Come si è arrivati al Mattarella bis
Capire come si è giunti al punto di considerare un “successo” l’aver costretto Mattarella ad accettare una soluzione che aveva sempre avversato è indicativo. Non giriamoci troppo intorno, anche perché immaginiamo che i nostri lettori siano estenuati da giorni di chiacchiere, indiscrezioni e boutade: non c’è mai stata un’alternativa seria a questo scenario che non fosse l’elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica (ne avevamo scritto qui, qui e qui). Una soluzione irrituale anche questa, sia chiaro, di cui si era fatto garante il Partito democratico, tra mille ambiguità e contraddizioni.
L'opzione Draghi è naufragata per due ragioni: la tenace contrarietà di Giuseppe Conte (unitamente alle perplessità trasversali all'interno di Lega e Forza Italia) e l'assenza di un accordo su composizione ed equilibrio del prossimo governo. Tutto è ruotato intorno a questo punto: ogni ipotesi alternativa doveva confrontarsi col fantasma del Presidente del Consiglio in carica, peraltro incredibilmente e inopportunamente attivo per perorare la propria candidatura. Dal "nome giusto per il Paese" si è passati a cercare "il nome giusto per convincere Draghi a restare a Palazzo Chigi", o almeno "il nome giusto per completare la legislatura".
Lo spettacolo che ne è seguito è stato indecente e ha ridefinito il concetto di opportunità politica. Abbiamo visto la seconda carica dello Stato prestarsi a una discutibilissima operazione politica, peraltro con zero chance di andare a buon fine. È quasi andata in porto la candidatura della titolare dei servizi segreti Elisabetta Belloni, stoppata più per le beghe interne ai partiti che per ragioni di sostanza. Mentre i leader si incartavano in veti reciproci e incontri senza costrutto, in Parlamento ci si è auto-organizzati: senatori e deputati del centrosinistra hanno cominciato a votare Mattarella, un passaparola che ha rappresentato una spinta decisiva per l’esito finale della contesa.
I leader dei partiti non hanno potuto far altro che prendere atto di non essere in grado di trovare una soluzione al rebus, rimettendosi alla clemenza del Capo dello Stato, dietro il paravento della “supremazia del Parlamento”. E così ha dovuto fare anche il Presidente del Consiglio, che ha provato goffamente a intestarsi il ruolo di king-maker, o almeno di colui che avrebbe convinto Mattarella ad accettare un secondo mandato.
Cosa accade ora, quindi?
In queste ore fioccano i paragoni con l’elezione bis di Giorgio Napolitano. Nell’analizzare come si fosse giunti a una tale forzatura istituzionale, Napolitano notava come avessero “finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi, e strumentalizzazioni”. Una frase che potremmo tranquillamente aspettarci nel discorso di insediamento di Mattarella.
La situazione è però radicalmente diversa, perché mentre nel 2013 si trattava di una scelta che avrebbe dovuto e potuto aprire una stagione di riforme, ora siamo in presenza di una nomina che congela la situazione attuale. È una differenza essenziale, che si rifletterà anche sulla durata del nuovo incarico, che non avrebbe senso definire "a tempo", oltraggiando ulteriormente la nostra Carta, che non prevede che siano partiti o parlamentari a stabilire la durata dell'incarico del Presidente della Repubblica. Il bis di Mattarella, bisogna dirlo, non va nella direzione della normalizzazione, ma in quella dello stato di eccezione elevato a prassi. Un prezzo davvero alto da pagare per un anno in più di una legislatura, francamente.
Confermare Mattarella al Quirinale significa prima di tutto blindare l'assetto attuale fino alla fine della legislatura, soprattutto poiché si tratta di una configurazione pianificata e gestita anche dal Capo dello Stato. Ovvero, Draghi a Palazzo Chigi, sostenuto da una maggioranza tanto ampia quanto divisa e litigiosa, per gestire la fase di uscita dalla pandemia e i fondi del Pnrr; riduzione al minimo degli spazi di manovra per il Parlamento, schiacciato tra decreti legge e Dpcm su cui non tocca palla. La legislatura arriverà a compimento e probabilmente ci toccherà assistere a qualche mese di discussioni a vuoto su una nuova legge elettorale.
La vera battaglia si giocherà all'interno dei singoli partiti e coalizioni, usciti a pezzi dalla partita del Quirinale. Salvini ha mostrato una volta di più tutti i suoi limiti: ha spaccato la sua coalizione, forse pure il partito e contemporaneamente indebolito il peso della Lega nel governo. Conte ha mantenuto il punto su Draghi, ma si è prodotto in una fuga in avanti sul nome "della donna Presidente", co-intestandosi una strategia fallimentare (sempre con la collaborazione dell'onnipresente Salvini). Letta ha mantenuto un profilo bassissimo, senza fornire uno straccio di alternativa reale, ma sperando solo che cadesse il veto su Draghi. Berlusconi ha davvero creduto di poter essere della partita. Renzi non ha toccato palla stavolta, ritagliandosi un ruolo di custode delle prassi istituzionali che stride con la spregiudicatezza di cui ha sempre dato prova in passato. Gli altri leader o aspiranti tali si sono limitati a gonfiare le pattuglie dei franchi tiratori o a mandare spin ai giornali. Solo Meloni si è mostrata coerente e poco incline ai compromessi al ribasso, certo potendo contare su un vantaggio posizionale non da poco.
Ora tutti esultano e parlano della scelta migliore per il Paese. La resa della politica diventa il trionfo della politica. Speriamo almeno che non ci chiedano pure di ringraziarli per questo teatrino.