Parafrasando Tomasi di Lampedusa a volte basta non fare nulla perché attorno a noi tutto cambi. E a ben vedere, la “piccola rivoluzione” di Elly Schlein sembra essere iniziata così: con lei ferma, o quasi. E il mondo che le cambia attorno.
Tradotto: il Partito Democratico è sempre lo stesso, la sua nomenklatura e i suoi problemi sono sempre lì, Giorgia Meloni è sempre salda al governo, e l’opposizione è sempre divisa in partes tres, come la Gallia ai tempi di Giulio Cesare. Però, in sole due settimane, e senza che apparentemente nulla sia successo, il Pd è risalito di due punti nei sondaggi e ha staccato il Movimento Cinque Stelle, mentre il consenso per Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia ha cominciato, per la prima volta da anni, a scendere. E nella giornata di ieri abbiamo per la prima volta assistito a una foto di gruppo dei leader dell’opposizione – Calenda, Schlein, Fratoianni e Conte – sorridenti e abbracciati sul palco del congresso della Cgil a Rimini, mentre parlavano di dar vita a un coordinamento delle opposizioni, dopo mesi passati ad attaccarsi tra loro anziché opporsi alla destra al governo.
Apparentemente nulla sembra essere successo, dicevamo. Eppure, sebbene la sua lunga marcia non sembra nemmeno essere cominciata, Elly Schlein ha già mosso tre passi nella giusta direzione, riuscendo in un colpo solo a far crescere e a ridare centralità al suo partito, a mettere in difficoltà la destra al governo e a dissodare il terreno per una futuribile alleanza tra opposizioni che potrebbe rendere contenibile la poltrona di palazzo Chigi alle prossime elezioni, anche con questa legge elettorale.
La prima mossa azzeccata di Elly Schlein è stata quella di parlare pochissimo, e di scegliere accuratamente i momenti in cui farlo: l’’assemblea del Partito Democratico che l’ha eletta segretaria e il question time con Giorgia Meloni. Ha lasciato che il suo collega Giuseppe Provenzano parlasse nel dibattito sui fatti di Cutro. Ha ridotto al minimo le presenze nei talk show, non ha praticamente concesso interviste ai giornali. Ha ignorato ogni critica e ogni insulto sessista, omofobo e antisemita che ha ricevuto, rifiutando il ruolo della vittima. Ha lasciato che gli altri parlassero di lei, che il suo personaggio prendesse la scena suo malgrado. Niente di più e niente di meno rispetto a quanto abbia fatto Enrico Letta sino a ora. Ma la sua reticenza, nel momento di massima attenzione nei suoi confronti, ha concorso ad alimentarne l’aura di diversità che la circonda. E a sottolineare la discontinuità con il passato e con competitor politici alla spasmodica ricerca di visibilità costante. E che oggi, ancor più di due settimane fa, appaiono ancor più vecchi e fuori del tempo.
La seconda mossa azzeccata è stata quella di scegliere bene il tema da cui cominciare la sua battaglia d’opposizione. Avrebbe potuto battere forte sui migranti, o sui diritti delle coppie omogenitoriali, dopo i fatti degli ultimi giorni. Ha scelto il salario minimo, invece: che è un tema legato a quel mondo del lavoro che il Pd ha colpevolmente dimenticato per anni, se non per erodere i diritti dei lavoratori. E che, tangenzialmente, ma nemmeno troppo, è l’unico punto su cui convergono le opinioni di Carlo Calenda e Giuseppe Conte, i recalcitranti leader degli altri due pezzi di opposizione al governo. Non è una scelta casuale, insomma, ma un messaggio chiaro. Che non a caso è stato esplicitato davanti a una platea sindacale, con la proposta di un coordinamento permanente delle opposizioni a Giorgia Meloni che assomiglia molto all’embrione di una futuribile – per ora molto molto molto futuribile – alleanza elettorale. Proposta accolta, peraltro.
La terza mossa azzeccata è stata quella di lanciare solo messaggi di unione, e non di rottura. È scesa In piazza con gli insegnanti, che sono un pezzo storico dell’elettorato democratico, anch’esso maltrattato per anni. Ha aperto la sua avventura nel Pd offrendo la presidenza del partito al suo sfidante Stefano Bonaccini, evitando (per il momento) ogni proposito di fuga o di scissione dei suoi oppositori interni. Non ha mai rivolto critiche agli altri pezzi dell’opposizione, nonostante loro – soprattutto Calenda – non gliele abbiamo fatte mancare. E ha ricucito il rapporto con la Cgil e con il mondo sindacale, un’altra delle grandi ferite aperte della stagione renziana.
Ribadiamolo, che è meglio: sono i primi tre passi di una lunghissima e difficilissima traversata, ricca di ostacoli e potenziali inciampi, a partire dal modo in cui affrontare la transizione ecologica sino al sostegno all'Ucraina nella sua resistenza contro l'invasore russo. Ma se non saranno smentiti dai fatti e se davvero daranno il senso della leadership di Schlein, possono davvero diventare i prodromi di una stagione diversa. In cui il Pd torna a essere la chiesa al centro del villaggio del centrosinistra italiano. In cui i potenziali alleati tornano a essere tali, e non avversari desiderosi solo di dividersene le spoglie. In cui il centro-sinistra, soprattutto, smette di infettare le sue antiche ferite e prova a cicatrizzarle, per costruire un’alternativa credibile alla destra al governo.
Le rivoluzioni – grandi o piccole che siano – si fanno senza che nessuno se ne accorga, diceva Bruno Munari. Soprattutto se vuoi che nessuno le veda arrivare.